An. et vol. XCVIII 6 Octobris 2006 N. 10 ACTA APOSTOLICAE SEDIS COMMENTARIUM OFFICIALE Directio: Palazzo Apostolico – Città del Vaticano – Administratio: Libreria Editrice Vaticana ACTA BENEDICTI PP. XVI CONSTITUTIO APOSTOLICA BANMAVENSIS In Myanmar nova conditur dioecesis Banmavensis. BENEDICTUS EPISCOPUS servus servorum dei ad perpetuam rei memoriam Venerabiles Fratres Nostri S.R.E. Cardinales atque Praesules, qui Congregationi pro Gentium Evangelizatione sunt praepositi, ad aptius consulendum evangelizationis operi in Myanmar, re mature perpensa auditisque pariter eorum quorum interest votis, censuerunt, sicut antea est visum, ibidem novam condendam esse dioecesim. Nos igitur, Qui gravissimo fungimur munere supremi Pastoris universae catholicae Ecclesiae, talem sententiam ratam habentes, summa Apostolica potestate haec decernimus. A Myitkyinaënsi dioecesi separamus partem meridianam territorii complectentis districtus civiles patrio sermone nuncupatos Banmaw, Mansi, Momauk et Shwegu; ex eaque novam constituimus dioecesim Banmavensem, quam metropolitanae Ecclesiae Mandalayensi suffraganeam facimus atque iurisdictioni Congregationis pro Gentium Evangelizatione subicimus. Praeterea iubemus Episcopi sedem poni in civitate « Banmaw » atque templum inibi exstans, Deo in honorem Sancti Patricii dicatum, ad dignitatem Cathedralis ecclesiae evehimus; cetera vero secundum canonicas leges temperentur. 690 Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale Quae praescripsimus perducet ad exitum Venerabilis Frater Salvator Pennacchio, Archiepiscopus titulo Montis Marani et in Myanmar Delegatus Apostolicus; qui, re acta, curabit documenta exaranda sincerisque exemplis Congregationi pro Gentium Evangelizatione mittenda. Hanc denique Nostram Constitutionem nunc et in posterum ratam esse volumus, contrariis quibuslibet rebus non obstantibus. Datum Romae, apud Sanctum Petrum, die duodetricesimo mensis Augusti, anno Domini bis millesimo sexto, Pontificatus Nostri secundo. e Angelus card. Sodano Crescentius card. Sepe Secretarius Status Congr. pro Gentium Evang. Praef. Marcellus Rossetti, Protonot. Apost. Franciscus Bruno, Protonot. Apost. Loco e Plumbi In Secret. Status tab., n. 39.953 HOMILIA Ad sodales Commissionis Theologicae Internationalis.* Cari Fratelli e Sorelle, non ho preparato una vera omelia, solo qualche spunto per fare la meditazione. La missione di san Bruno, il santo di oggi, appare con chiarezza, è — possiamo dire — interpretata nell’orazione di questo giorno che, pur alquanto variata nel testo italiano, ci ricorda che la sua missione fu silenzio e contemplazione. Ma silenzio e contemplazione hanno uno scopo: servono per conservare, nella dispersione della vita quotidiana, una permanente unione con Dio. Questo è lo scopo: che nella nostra anima sia sempre presente l’unione con Dio e trasformi tutto il nostro essere. * Die 6 Octobris 2006. Textus hic viva voce, sine scripto, a Summo Pontifice est prolatus. Acta Benedicti Pp. XVI 691 Silenzio e contemplazione — caratteristica di san Bruno — servono per poter trovare nella dispersione di ogni giorno questa profonda, continua, unione con Dio. Silenzio e contemplazione: la bella vocazione del teologo è parlare. Questa è la sua missione: nella loquacità del nostro tempo, e di altri tempi, nell’inflazione delle parole, rendere presenti le parole essenziali. Nelle parole rendere presente la Parola, la Parola che viene da Dio, la Parola che è Dio. Ma come potremmo, essendo parte di questo mondo con tutte le sue parole, rendere presente la Parola nelle parole, se non mediante un processo di purificazione del nostro pensare, che soprattutto deve essere anche un processo di purificazione delle nostre parole? Come potremmo aprire il mondo, e prima noi stessi, alla Parola senza entrare nel silenzio di Dio, dal quale procede la sua Parola? Per la purificazione delle nostre parole, e quindi per la purificazione delle parole del mondo, abbiamo bisogno di quel silenzio che diventa contemplazione, che ci fa entrare nel silenzio di Dio e cosı̀ arrivare al punto dove nasce la Parola, la Parola redentrice. San Tommaso d’Aquino, con una lunga tradizione, dice che nella teologia Dio non è l’oggetto del quale parliamo. Questa è la nostra concezione normale. In realtà, Dio non è l’oggetto; Dio è il soggetto della teologia. Chi parla nella teologia, il soggetto parlante, dovrebbe essere Dio stesso. E il nostro parlare e pensare dovrebbe solo servire perché possa essere ascoltato, possa trovare spazio nel mondo, il parlare di Dio, la Parola di Dio. E cosı̀, di nuovo, ci troviamo invitati a questo cammino della rinuncia a parole nostre; a questo cammino della purificazione, perché le nostre parole siano solo strumento mediante il quale Dio possa parlare, e cosı̀ Dio sia realmente non oggetto, ma soggetto della teologia. In questo contesto mi viene in mente una bellissima parola della Prima Lettera di San Pietro, nel primo capitolo, versetto 22. In latino suona cosı̀: « Castificantes animas nostras in oboedientia veritatis ». L’obbedienza alla verità dovrebbe « castificare » la nostra anima, e cosı̀ guidare alla retta parola e alla retta azione. In altri termini, parlare per trovare applausi, parlare orientandosi a quanto gli uomini vogliono sentire, parlare in obbedienza alla dittatura delle opinioni comuni, è considerato come una specie di prostituzione della parola e dell’anima. La « castità » a cui allude l’apostolo Pietro è non sottomettersi a questi standard, non cercare gli applausi, ma cercare l’obbedienza alla verità. E penso che questa sia la virtù fondamentale del 692 Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale teologo, questa disciplina anche dura dell’obbedienza alla verità che ci fa collaboratori della verità, bocca della verità, perché non parliamo noi in questo fiume di parole di oggi, ma realmente purificati e resi casti dall’obbedienza alla verità, la verità parli in noi. E possiamo cosı̀ essere veramente portatori della verità. Questo mi fa pensare a sant’Ignazio di Antiochia e ad una sua bella espressione: « Chi ha capito le parole del Signore capisce il suo silenzio, perché il Signore va conosciuto nel suo silenzio ». L’analisi delle parole di Gesù arriva fino a un certo punto, ma rimane nel nostro pensare. Solo quando arriviamo a quel silenzio del Signore, nel suo essere col Padre dal quale vengono le parole, possiamo anche realmente cominciare a capire la profondità di queste parole. Le parole di Gesù sono nate nel suo silenzio sul Monte, come dice la Scrittura, nel suo essere col Padre. Da questo silenzio della comunione col Padre, dell’essere immerso nel Padre, nascono le parole e solo arrivando a questo punto, e partendo da questo punto, arriviamo alla vera profondità della Parola e possiamo essere noi autentici interpreti della Parola. Il Signore ci invita, parlando, di salire con Lui sul Monte, e nel suo silenzio, imparare cosı̀, di nuovo, il vero senso delle parole. Dicendo questo siamo arrivati alle due letture di oggi. Giobbe aveva gridato a Dio, aveva anche fatto la lotta con Dio davanti alle evidenti ingiustizie con le quali lo trattava. Adesso è confrontato con la grandezza di Dio. E capisce che davanti alla vera grandezza di Dio tutto il nostro parlare è solo povertà e non arriva nemmeno da lontano alla grandezza del suo essere e cosı̀ dice: « Due volte ho parlato, non continuerò ». Silenzio davanti alla grandezza di Dio, perché le parole nostre diventano troppo piccole. Questo mi fa pensare alle ultime settimane della vita di san Tommaso. In queste ultime settimane non ha più scritto, non ha più parlato. I suoi amici gli chiedono: Maestro, perché non parli più, perché non scrivi? E lui dice: Davanti a quanto ho visto adesso tutte le mie parole mi appaiono come paglia. Il grande conoscitore di san Tommaso, il Padre Jean-Pierre Torrel, ci dice di non intendere male queste parole. La paglia non è niente. La paglia porta il grano e questo è il grande valore della paglia. Porta il grano. E anche la paglia delle parole rimane valida come portatrice del grano. Ma questo è anche per noi, direi, una relativizzazione del nostro lavoro e insieme una valorizzazione del nostro lavoro. È anche un’indicazione, perché il modo di lavorare, la nostra paglia, porti realmente il grano della Parola di Dio. Acta Benedicti Pp. XVI 693 Il Vangelo finisce con le parole: « Chi ascolta voi, ascolta me ». Che ammonizione, che esame di coscienza queste parole! È vero che chi ascolta me, ascolta realmente il Signore? Preghiamo e lavoriamo perché sia sempre più vero che chi ascolta noi ascolta Cristo. Amen! ALLOCUTIONES I Ad Congressum Internationalem a Pontificia Academia pro Vita paratum.* Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, Illustri Signori, gentili Signore! A tutti rivolgo il mio saluto cordiale. L’incontro con scienziati e studiosi come Voi, dediti alla ricerca finalizzata alla terapia di malattie che affliggono pesantemente l’umanità, è per me motivo di particolare conforto. Sono grato agli organizzatori che hanno promosso questo Congresso su di un argomento che ha acquistato in questi anni crescente rilevanza. Lo specifico tema del Simposio è opportunamente formulato con un interrogativo aperto alla speranza: « Le cellule staminali: quale futuro per la terapia? ». Ringrazio il Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, Mons. Elio Sgreccia, per le parole gentili che mi ha rivolto anche a nome della Federazione Internazionale delle Associazioni dei Medici Cattolici (Fiamc), associazione che ha cooperato alla organizzazione del Congresso ed è qui rappresentata dal Presidente uscente, Prof. Gianluigi Gigli e dal Presidente eletto Prof. Simon de Castellvi. Quando la scienza si applica al sollievo della sofferenza e quando, su questo cammino, scopre nuove risorse, essa si dimostra due volte ricca di umanità: per lo sforzo dell’ingegno investito nella ricerca e per il beneficio annunciato a quanti sono afflitti dalla malattia. Anche coloro che fornisco* Die 16 Septembris 2006. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 694 no i mezzi finanziari e incoraggiano le strutture di studio necessarie partecipano al merito di questo progresso sulla strada della civiltà. Vorrei ripetere in questa circostanza quanto ho avuto modo di affermare in una recente Udienza: « Il progresso può essere progresso vero solo se serve alla persona umana e se la persona umana stessa cresce; se non cresce solo il suo potere tecnico, ma cresce anche la sua capacità morale ».1 In questa luce, anche la ricerca sulle cellule staminali somatiche merita approvazione ed incoraggiamento quando coniuga felicemente insieme il sapere scientifico, la tecnologia più avanzata in ambito biologico e l’etica che postula il rispetto dell’essere umano in ogni stadio della sua esistenza. Le prospettive aperte da questo nuovo capitolo della ricerca sono in se stesse affascinanti, perché lasciano intravedere la possibilità di curare malattie che comportano la degenerazione dei tessuti, con i conseguenti rischi di invalidità e di morte per chi ne è affetto. Come non sentire il dovere di lodare quanti si applicano a questa ricerca e quanti ne sostengono l’organizzazione e i costi? Vorrei in particolare esortare le strutture scientifiche che si rifanno per ispirazione e per organizzazione alla Chiesa Cattolica a incrementare questo tipo di ricerca e a stabilire i più stretti contatti fra loro e con quanti perseguono nei debiti modi il sollievo della sofferenza umana. Mi sia lecito anche rivendicare, di fronte a frequenti e ingiuste accuse di insensibilità rivolte alla Chiesa, il costante sostegno da essa dato nel corso della sua bimillenaria storia alla ricerca rivolta alla cura delle malattie e al bene dell’umanità. Se resistenza c’è stata — e c’è tuttora — essa era ed è nei confronti di quelle forme di ricerca che prevedono la programmata soppressione di esseri umani già esistenti, anche se non ancora nati. In tali casi la ricerca, a prescindere dai risultati di utilità terapeutica, non si pone veramente a servizio dell’umanità. Passa infatti attraverso la soppressione di vite umane che hanno uguale dignità rispetto agli altri individui umani e agli stessi ricercatori. La storia stessa ha condannato nel passato e condannerà in futuro una tale scienza, non solo perché priva della luce di Dio, ma anche perché priva di umanità. Vorrei ripetere qui quanto già scrivevo qualche tempo fa: « Qui c’è un nodo che non possiamo aggirare: nessuno può disporre della vita umana. Deve essere stabilito un confine invalicabile alle nostre possibilità di fare e sperimentare. L’uomo non è un oggetto di cui 1 Udienza Generale del 16 agosto. Acta Benedicti Pp. XVI 695 possiamo disporre, ma ogni singolo individuo rappresenta la presenza di Dio nel mondo ».2 Di fronte alla diretta soppressione dell’essere umano non ci possono essere né compromessi né tergiversazioni; non si può pensare che una società possa combattere efficacemente il crimine, quando essa stessa legalizza il delitto nell’ambito della vita nascente. In occasione di recenti Congressi della Pontificia Accademia per la Vita ho avuto modo di ribadire l’insegnamento della Chiesa, rivolto a tutti gli uomini di buona volontà, circa il valore umano del neo concepito, anche quando viene considerato prima del suo impianto in utero. Il fatto che voi, in questo Congresso, abbiate espresso l’impegno e la speranza di conseguire nuovi risultati terapeutici utilizzando cellule del corpo adulto senza ricorrere alla soppressione di esseri umani neo concepiti, e il fatto che i risultati stiano premiando il vostro lavoro, costituiscono una conferma della validità del costante invito della Chiesa al pieno rispetto dell’essere umano fin dal concepimento. Il bene dell’uomo va ricercato non soltanto nelle finalità universalmente valide, ma anche nei metodi utilizzati per raggiungerle: il fine buono non può mai giustificare mezzi intrinsecamente illeciti. Non è soltanto questione di sano criterio per l’impiego delle limitate risorse economiche, ma anche, e soprattutto, di rispetto dei fondamentali diritti dell’uomo nell’ambito stesso della ricerca scientifica. Al vostro sforzo, certamente sostenuto da Dio che agisce in ogni uomo di buona volontà e agisce per il bene di tutti, auguro che Egli conceda la gioia della scoperta della verità, la sapienza nella considerazione e nel rispetto di ogni essere umano, e il successo nella ricerca di efficaci rimedi alla sofferenza umana. A suggello di questo auspicio imparto di cuore a tutti voi, ai vostri collaboratori e familiari, come pure ai pazienti cui andranno le vostre risorse di ingegno e il frutto del vostro lavoro, un’affettuosa benedizione, con l’assicurazione di uno speciale ricordo nella preghiera. 2 J. Ratzinger, Dio e il mondo, pag. 119. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 696 II Ad participes conventus novorum episcoporum.* Cari Fratelli nell’Episcopato! A ciascuno di voi il mio cordiale saluto. Lo rivolgo anzitutto al Signor Cardinale Giovanni Battista Re, il quale si è fatto interprete dei vostri sentimenti, e lo estendo con affetto a quanti hanno organizzato e coordinato questo vostro incontro. In questi giorni avete ascoltato l’esperienza di alcuni Capi Dicastero della Curia Romana e di Vescovi, che vi hanno aiutato a riflettere su taluni aspetti del ministero episcopale di grande importanza per i nostri tempi. Quest’oggi è il Papa che vi accoglie con gioia ed è lieto di condividere con voi i sentimenti e le attese che vivete in questi primi mesi del vostro ministero episcopale. Voi avrete certamente già fatto l’esperienza di come Gesù, il Buon Pastore, agisce nelle anime con la sua grazia. « Ti basta la mia grazia »,1 si sentı̀ rispondere l’apostolo Paolo quando chiese al Signore di risparmiargli le sofferenze. Questa medesima consapevolezza alimenti sempre la vostra fede, stimoli in voi la ricerca delle vie per giungere al cuore di tutti con quel sano ottimismo che dovete sempre irradiare attorno a voi. Nell’Enciclica Deus caritas est ho osservato che i Vescovi hanno la prima responsabilità di edificare la Chiesa come famiglia di Dio e come luogo di aiuto vicendevole e di disponibilità.2 Per poter compiere questa missione avete ricevuto, con la consacrazione episcopale, tre peculiari uffici: il munus docendi, il munus sanctificandi ed il munus regendi, che nel loro insieme costituiscono il munus pascendi. In particolare, la finalità del munus regendi è la crescita nella comunione ecclesiale, cioè la costruzione di una comunità concorde nell’ascolto dell’insegnamento degli apostoli, nella frazione del pane, nelle preghiere e nell’unione fraterna.3 Strettamente congiunto con gli uffici di insegnare e di santificare, quello di governare — il munus regendi appunto — costituisce per il Vescovo un autentico atto di amore verso Dio e verso il prossimo, che si esprime nella carità pastorale. Lo ha indicato autorevolmen* Die 21 Septembris 2006. 1 2 3 2 Cor 12, 9. Cfr n. 32. Cfr At 2, 42. Acta Benedicti Pp. XVI 697 te il Concilio Vaticano II nella Costituzione Lumen gentium, proponendo ai Vescovi come modello Cristo, Buon Pastore, venuto non per essere servito ma per servire.4 Su questa scia la Lettera apostolica post-sinodale Pastores gregis invita il Vescovo ad ispirarsi costantemente all’icona evangelica della lavanda dei piedi.5 Solo Cristo, che è l’amore incarnato di Dio,6 può indicarci in modo autorevole come amare e servire la Chiesa. Cari Fratelli, sull’esempio di Cristo ognuno di voi, nella cura quotidiana del gregge, si faccia « tutto a tutti » 7 proponendo la verità della fede, celebrando i sacramenti della nostra santificazione e testimoniando la carità del Signore. Accogliete con animo aperto coloro che bussano alla vostra porta: consigliateli, consolateli e sosteneteli nella via di Dio, cercando di condurre tutti a quell’unità nella fede e nell’amore di cui, per volontà del Signore, nelle vostre Diocesi dovete essere il visibile principio ed il fondamento.8 Questa sollecitudine abbiate in primo luogo nei confronti dei sacerdoti. Agite sempre con loro come padri e fratelli maggiori che sanno ascoltare, accogliere, confortare e, quando necessario, anche correggere; ricercatene la collaborazione e siate loro vicini specialmente nei momenti significativi del loro ministero e della loro vita. Uguale sollecitudine cercate poi di rivolgere ai giovani che si preparano alla vita sacerdotale e religiosa. In virtù dell’ufficio di governare,9 il Vescovo è chiamato inoltre a giudicare e disciplinare la vita del Popolo di Dio affidato alle sue cure pastorali con leggi, indicazioni e suggerimenti, secondo quanto è previsto dalla disciplina universale della Chiesa. Questo diritto e dovere del Vescovo è quanto mai importante affinché la Comunità diocesana sia unita nel suo interno e proceda in profonda comunione di fede, di amore e di disciplina con il Vescovo di Roma e con tutta la Chiesa. Vi esorto, pertanto, cari Fratelli nell’Episcopato, ad essere custodi attenti di questa comunione ecclesiale e a promuoverla e difenderla vigilando costantemente sul gregge di cui siete costituiti Pastori. Si tratta di un atto di amore che richiede discernimento, coraggio apostolico e paziente bontà nel cercare di convincere e di coinvolgere, perché le vostre indicazioni siano accolte di buon animo ed eseguite con convinzione e pron4 5 6 7 8 9 Cfr Cfr Cfr Cfr Cfr Cfr n. 27. n. 42. Deus caritas est, 12. 1 Cor 9, 22. Lumen gentium, 23. Lumen gentium, 27. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 698 tezza. Con la docile obbedienza al Vescovo, ogni fedele contribuisce responsabilmente all’edificazione della Chiesa. Ciò sarà possibile se, consapevoli della vostra missione e delle vostre responsabilità, saprete alimentare in ognuno di essi il senso di appartenenza alla Chiesa e la gioia della comunione fraterna, coinvolgendo gli appositi organismi previsti dalla disciplina ecclesiale. Costruire la comunione ecclesiale sia il vostro impegno quotidiano. La Lettera apostolica Pastores gregis ed il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi insistono nell’indicare a ciascun Pastore che la sua autorità oggettiva deve essere sostenuta dall’autorevolezza della sua vita. La serenità nei rapporti, la finezza del tratto e la semplicità della vita sono doti che senza dubbio arricchiscono la personalità umana del Vescovo. Nella « Regola Pastorale », san Gregorio Magno scrive che « il governo delle anime è l’arte delle arti ».10 Arte che richiede la crescita costante delle virtù, tra le quali desidero ricordare quella della prudenza, definita da san Bernardo madre della fortezza. La prudenza vi renderà pazienti con voi stessi e con gli altri, coraggiosi e fermi nelle decisioni, misericordiosi e giusti, unicamente preoccupati della salvezza vostra e dei vostri fratelli « con timore e tremore ».11 Il dono totale di voi stessi, che la cura del gregge del Signore domanda, ha bisogno del supporto di un’intensa vita spirituale, alimentata da assidua preghiera personale e comunitaria. Un costante contatto con Dio caratterizzi pertanto le vostre giornate e accompagni ogni vostra attività. Vivere in intima unione con Cristo vi aiuterà a raggiungere quel necessario equilibrio tra il raccoglimento interiore e il necessario sforzo richiesto dalle molteplici occupazioni della vita, evitando di cadere in un attivismo esagerato. Il giorno della vostra consacrazione episcopale avete fatto la promessa di pregare senza mai stancarvi per il vostro popolo. Cari Fratelli, rimanete sempre fedeli a questo impegno che vi renderà capaci di esercitare in modo irreprensibile il vostro ministero pastorale. Mediante la preghiera, le porte del vostro cuore si aprono al progetto di Dio, che è progetto di amore a cui Egli vi ha chiamati unendovi più intimamente a Cristo con la grazia dell’Episcopato. Seguendo Lui, il Pastore e Vescovo delle vostre anime,12 sarete spinti a tendere senza stancarvi alla santità, che è lo scopo fondamentale dell’esistenza di ogni cristiano. 10 11 12 N. 1. Fil 2, 12. Cfr 1 Pt 2, 25. Acta Benedicti Pp. XVI 699 Cari Fratelli, ringraziandovi per la vostra gradita visita, voglio assicurarvi del mio quotidiano ricordo al Signore per il vostro servizio ecclesiale, che affido alla Madonna Mater Ecclesiae. La sua protezione invoco su di voi, sulle vostre Diocesi e sul vostro ministero. Con questi sentimenti imparto a voi e a quanti vi stanno a cuore una speciale Benedizione Apostolica. III Ad coetum plenarium Pontificii Consilii pro Laicis.* Signori Cardinali, venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, cari fratelli e sorelle! Oggi ho la gioia di incontrarvi per la prima volta, cari membri e consultori del Pontificio Consiglio per i Laici, riuniti per l’Assemblea Plenaria. Il vostro Pontificio Consiglio ha la peculiarità di annoverare tra i suoi membri e consultori, accanto a Cardinali, Vescovi, sacerdoti e religiosi, una maggioranza di fedeli laici, provenienti da diversi continenti e Paesi e dalle più varie esperienze apostoliche. Vi saluto tutti con affetto e vi ringrazio per il servizio che prestate alla Sede di Pietro e alla Chiesa diffusa in ogni parte del mondo. Il mio saluto va in modo speciale al Presidente, l’Arcivescovo Stanisław Ryłko, che ringrazio per le gentili e devote parole, al Segretario, il Vescovo Josef Clemens, unitamente a quanti quotidianamente lavorano nel vostro Dicastero. Durante gli anni del mio servizio alla Curia Romana avevo già avuto modo di rendermi conto della crescente importanza assunta dal Pontificio Consiglio per i Laici nella Chiesa; importanza che constato ancor più da quando il Signore mi ha chiamato a succedere al Servo di Dio Giovanni Paolo II nella guida dell’intero popolo cristiano, perché più direttamente mi è dato di vedere il lavoro che voi svolgete. Ho avuto occasione, infatti, di presiedere due incontri di indubbia rilevanza ecclesiale promossi dal vostro * Die 22 Septembris 2006. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 700 Dicastero: la Giornata Mondiale della Gioventù, tenutasi a Colonia nel mese di agosto dello scorso anno e l’Incontro svoltosi in Piazza San Pietro, alla Vigilia di Pentecoste di quest’anno, con la presenza di più di cento Movimenti ecclesiali e nuove Comunità. Penso poi al primo Congresso latinoamericano dei Movimenti ecclesiali e delle nuove Comunità, che il vostro Pontificio Consiglio ha organizzato in collaborazione con il CELAM, a Bogotà dal 9 al 12 marzo 2006, in vista della V Conferenza generale dell’Episcopato latino-americano. Dopo aver esaminato nella precedente Assemblea Plenaria la natura teologica e pastorale della comunità parrocchiale, state ora affrontando la questione da un punto di vista operativo, ricercando elementi utili per favorire un autentico rinnovamento parrocchiale. Tema infatti del vostro incontro è: « La parrocchia ritrovata. Percorsi di rinnovamento ». In effetti, l’aspetto teologico pastorale e quello operativo non possono essere dissociati, se si vuole accedere al mistero di comunione di cui la parrocchia è chiamata ad essere sempre di più segno e strumento di attuazione. L’evangelista Luca negli Atti degli Apostoli indica i criteri essenziali per una retta comprensione della natura della comunità cristiana, e quindi anche di ogni parrocchia, laddove descrive la prima comunità di Gerusalemme perseverante nell’ascolto dell’insegnamento degli Apostoli, nell’unione fraterna, nella « frazione del pane e nelle preghiere », una comunità accogliente e solidale sino al punto di mettere tutto in comune.1 La parrocchia può rivivere questa esperienza e crescere nell’intesa e nella fraterna coesione se prega incessantemente e resta in ascolto della Parola di Dio, soprattutto se partecipa con fede alla celebrazione dell’Eucaristia presieduta dal sacerdote. Scriveva in proposito l’amato Giovanni Paolo II nella sua ultima Enciclica Ecclesia de Eucharistia: « La parrocchia è una comunità di battezzati che esprimono e affermano la loro identità soprattutto attraverso la celebrazione del Sacrificio eucaristico ».2 L’auspicato rinnovamento della parrocchia, dunque, non può scaturire solo da pur utili ed opportune iniziative pastorali, né tanto meno da programmi elaborati a tavolino. Ispirandosi al modello apostolico, cosı̀ come appare negli Atti degli Apostoli, la parrocchia « ritrova » se stessa nell’incontro con Cristo, specialmente nell’Eu1 2 Cfr 2, 42; 4, 32-35. N. 32. Acta Benedicti Pp. XVI 701 caristia. Nutrita del pane eucaristico, essa cresce nella comunione cattolica, cammina in piena fedeltà al Magistero ed è sempre attenta ad accogliere e discernere i diversi carismi che il Signore suscita nel Popolo di Dio. Dall’unione costante con Cristo la parrocchia trae vigore per impegnarsi poi senza sosta nel servizio ai fratelli, particolarmente verso i poveri, per i quali rappresenta di fatto il primo referente. Cari fratelli e sorelle, mentre vi esprimo vivo apprezzamento per l’attività di animazione e di servizio che svolgete, auspico di cuore che i lavori dell’Assemblea Plenaria contribuiscano a rendere i fedeli laici sempre più consapevoli della loro missione nella Chiesa, in particolare all’interno della comunità parrocchiale, che è una « famiglia » di famiglie cristiane. Assicuro per questo un costante ricordo nella preghiera e, mentre invoco su ciascuno la materna protezione di Maria, imparto volentieri a tutti voi, ai vostri familiari e alle comunità alle quali appartenete la mia Benedizione. IV Ad episcopos participes cursus renovationis quem paravit Congregatio pro Gentium Evangelizatione.* Signor Cardinale, cari Fratelli nell’Episcopato! Sono lieto di potervi incontrare in occasione del Seminario di Aggiornamento organizzato dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli e a ciascuno di voi rivolgo il mio più cordiale benvenuto. Saluto in primo luogo il Signor Cardinale Ivan Dias, Prefetto del Dicastero Missionario da appena qualche mese, e lo ringrazio per le amabili parole che mi ha rivolto anche a nome vostro. Saluto poi e ringrazio coloro che hanno prestato la loro collaborazione per la riuscita di questo corso formativo. Estendo il mio affettuoso pensiero alle vostre Comunità diocesane, giovani e cariche di entusiasmo, dove l’evangelizzazione mostra promettenti segni di sviluppo, benché talora il contesto sia duro e difficile. Questi giorni di fraterna convivenza vi sono * Die 23 Septembris 2006. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 702 certamente utili per la missione pastorale che al loro servizio, da poco tempo, vi è stata affidata dal Signore. Siete chiamati ad essere Pastori fra popolazioni che in buona parte non conoscono ancora Gesù Cristo. Come primi responsabili dell’annuncio evangelico, dovete pertanto fare sforzi non indifferenti perché a tutti sia data la possibilità di accoglierlo. Voi avvertite sempre più l’esigenza di inculturare il Vangelo, di evangelizzare le culture e alimentare un dialogo sincero ed aperto con tutti, perché insieme si costruisca un’umanità più fraterna e solidale. Solo spinti dall’amore di Cristo è possibile portare a compimento questa fatica apostolica, che domanda l’ardore intrepido di chi per il Signore non teme nemmeno la persecuzione e la morte. Come non ricordare i numerosi sacerdoti, religiosi, religiose e laici che, nei secoli passati ed in questi nostri tempi, hanno sigillato nei Territori di missione con il sangue la loro fedeltà a Cristo e alla Chiesa? Nei giorni scorsi, al numero di questi eroici testimoni del Vangelo si è aggiunto il sacrificio di suor Leonella Sgorbati, missionaria della Consolata, barbaramente uccisa a Mogadiscio, in Somalia. Questo martirologio adorna, ieri come oggi, la storia della Chiesa e, pur nella sofferenza e nell’apprensione, mantiene viva nel nostro animo la fiducia d’una gloriosa fioritura di fede cristiana, poiché, come afferma Tertulliano, « il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani ». A voi, Pastori del gregge di Dio, è affidato il mandato di custodire e trasmettere la fede in Cristo, consegnataci nella tradizione vivente della Chiesa e per la quale tanti hanno dato la loro vita. Per adempiere tale compito è essenziale che per primi voi siate « esempio in tutto di buona condotta, con purezza di dottrina, dignità, linguaggio sano e irreprensibile ».1 « L’uomo contemporaneo — ebbe a scrivere il mio Predecessore di venerata memoria, il Servo di Dio Papa Paolo VI — ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni ».2 Ecco perché è doveroso che diate primaria importanza nel vostro ministero episcopale alla preghiera e alla incessante tensione verso la santità. È importante che vi preoccupiate di una seria formazione dei seminaristi e di un permanente aggiornamento dei sacerdoti e dei catechisti. Mantenere l’unità della fede nella diversità delle sue espressioni culturali è un altro prezioso servizio che vi è richiesto, cari Fratelli 1 2 Tt 2, 7-8. Evangelii nuntiandi, 41. Acta Benedicti Pp. XVI 703 nell’Episcopato. Ciò esige che siate uniti al gregge, sull’esempio di Cristo Buon Pastore, e che il gregge cammini sempre unito a voi. Come sentinelle del Popolo di Dio, evitate con fermezza e coraggio le divisioni, specie quando sono dovute a motivi etnici e socio-culturali. Esse attentano infatti all’unità della fede e indeboliscono l’annuncio e la testimonianza del Vangelo di Cristo, che è venuto nel mondo per fare dell’intera umanità un popolo santo e una sola famiglia dove Dio è Padre di tutti. È motivo di gioia e di consolazione costatare che in molte vostre Chiese si assiste ad una costante fioritura di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa, dono meraviglioso di Dio da accogliere e promuovere con gratitudine e zelo. Sia vostra preoccupazione dotare i seminari di un numero sufficiente di formatori, scelti e preparati con cura, i quali siano anzitutto esempi e modelli per i seminaristi. Il seminario, voi lo sapete bene, è il cuore della Diocesi e proprio per questo il Vescovo lo segue personalmente. Dalla preparazione dei futuri sacerdoti e di tutti gli altri operatori della pastorale, in particolare dei catechisti, dipende l’avvenire delle vostre Comunità e quello della Chiesa universale. Venerati e cari Fratelli, arricchiti da questo vostro soggiorno formativo a Roma, tra qualche giorno farete ritorno nelle vostre Diocesi. Io continuerò a sentirmi spiritualmente unito a voi e vi domando di assicurare del mio affetto e della mia vicinanza nella preghiera anche le vostre Comunità, sulle quali invoco la materna protezione di Maria Santissima, Stella dell’Evangelizzazione, e l’intercessione di san Pio da Pietrelcina, di cui oggi ricorre la memoria liturgica. Con tali sentimenti imparto la mia Benedizione a tutti voi, estendendola volentieri a quanti sono affidati alle vostre premure di Pastori, in particolare ai bambini, ai giovani e agli anziani, ai malati, ai poveri e ai sofferenti. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 704 V Ad Legatos nationum plerumque Macometanae doctrinae apud Sedem Apostolicam receptos.* Monsieur le Cardinal, Mesdames et Messieurs les Ambassadeurs, Chers amis musulmans, Je suis heureux de vous accueillir pour cette rencontre que j’ai souhaitée afin de consolider les liens d’amitié et de solidarité entre le Saint-Siège et les communautés musulmanes du monde. Je remercie Monsieur le Cardinal Paul Poupard, Président du Conseil pontifical pour le Dialogue interreligieux, pour les paroles qu’il vient de m’adresser, ainsi que vous tous qui avez répondu à mon invitation. Les circonstances qui ont suscité notre rencontre sont bien connues. J’ai déjà eu l’occasion de m’y arrêter au cours de la semaine écoulée. Dans ce contexte particulier, je voudrais aujourd’hui redire toute l’estime et le profond respect que je porte aux croyants musulmans, rappelant les propos du Concile Vatican II qui sont pour l’Église catholique la Magna Charta du dialogue islamo-chrétien: « L’Église regarde aussi avec estime les musulmans, qui adorent le Dieu unique, vivant et subsistant, miséricordieux et tout-puissant, créateur du ciel et de la terre, qui a parlé aux hommes et aux décrets duquel, même s’ils sont cachés, ils s’efforcent de se soumettre de toute leur âme, comme s’est soumis à Dieu Abraham, à qui la foi islamique se réfère volontiers ».1 Me situant résolument dans cette perspective, dès le début de mon pontificat, j’ai eu l’occasion d’exprimer mon souhait de continuer d’établir des ponts d’amitié avec les adhérents de toutes les religions, manifestant particulièrement mon appréciation de la croissance du dialogue entre musulmans et chrétiens.2 Comme je l’ai souligné à Cologne, l’an dernier, « le dialogue interreligieux et interculturel entre chrétiens et musulmans ne peut se réduire à un choix passager. Il est en effet une nécessité * Die 25 Septembris 2006. 1 Déclaration Nostra aetate, n. 3. Cf. Discours aux représentants des Eglises et Communautés chrétiennes, et aux autres traditions religieuses, 25 avril 2005. 2 Acta Benedicti Pp. XVI 705 vitale, dont dépend en grande partie notre avenir ».3 Dans un monde marqué par le relativisme et excluant trop souvent la transcendance de l’universalité de la raison, nous avons impérativement besoin d’un dialogue authentique entre les religions et entre les cultures, capable de nous aider à surmonter ensemble toutes les tensions, dans un esprit de collaboration fructueuse. Poursuivant l’œuvre entreprise par mon prédécesseur, le Pape Jean-Paul II, je souhaite donc vivement que les relations confiantes qui se sont développées entre chrétiens et musulmans depuis de nombreuses années, non seulement se poursuivent, mais se développent dans un esprit de dialogue sincère et respectueux, fondé sur une connaissance réciproque toujours plus vraie qui, avec joie, reconnaı̂t les valeurs religieuses que nous avons en commun et qui, avec loyauté, respecte les différences. Le dialogue interreligieux et interculturel est une nécessité pour bâtir ensemble le monde de paix et de fraternité ardemment souhaité par tous les hommes de bonne volonté. En ce domaine, nos contemporains attendent de nous un témoignage éloquent pour montrer à tous la valeur de la dimension religieuse de l’existence. Aussi, fidèles aux enseignements de leurs propres traditions religieuses, chrétiens et musulmans doivent-ils apprendre à travailler ensemble, comme cela arrive déjà en diverses expériences communes, pour se garder de toute forme d’intolérance et s’opposer à toute manifestation de violence; et nous, Autorités religieuses et Responsables politiques, nous devons les guider et les encourager en ce sens. En effet, « même si, au cours des siècles, de nombreuses dissensions et inimitiés sont nées entre chrétiens et musulmans, le saint Concile les exhorte tous à oublier le passé et à pratiquer sincèrement la compréhension mutuelle, ainsi qu’à protéger et à promouvoir ensemble, pour tous les hommes, la justice sociale, les biens de la morale, la paix et la liberté ».4 Les leçons du passé doivent donc nous aider à rechercher des voies de réconciliation, afin de vivre dans le respect de l’identité et de la liberté de chacun, en vue d’une collaboration fructueuse au service de l’humanité tout entière. Comme le déclarait le Pape Jean-Paul II dans son discours mémorable aux jeunes, à Casablanca au Maroc, « le respect et le dialogue requièrent la réciprocité dans tous les domaines, surtout en ce qui concerne les libertés fondamentales et plus 3 4 Discours aux représentants de Communautés musulmanes, 20 août 2005. Déclaration Nostra aetate, n. 3. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 706 particulièrement la liberté religieuse. Ils favorisent la paix et l’entente entre les peuples ».5 Chers amis, je suis profondément convaincu que, dans la situation que connaı̂t le monde aujourd’hui, il est impératif que chrétiens et musulmans s’engagent ensemble pour faire face aux nombreux défis qui se présentent à l’humanité, notamment pour ce qui concerne la défense et la promotion de la dignité de l’être humain ainsi que des droits qui en découlent. Alors que grandissent les menaces contre l’homme et contre la paix, en reconnaissant le caractère central de la personne, et, en travaillant avec persévérance pour que sa vie soit toujours respectée, chrétiens et musulmans manifestent leur obéissance au Créateur, qui veut que tous vivent dans la dignité qu’il leur a donnée. Chers amis, je souhaite de tout cœur que Dieu miséricordieux guide nos pas sur les chemins d’une compréhension réciproque toujours plus vraie. Au moment où pour les musulmans commence la démarche spirituelle du mois de Ramadan, je leur adresse à tous mes vœux cordiaux, souhaitant que le Tout-Puissant leur accorde une vie sereine et paisible. Que le Dieu de la paix vous comble de l’abondance de ses Bénédictions, ainsi que les communautés que vous représentez! 5 N. 5. Acta Benedicti Pp. XVI 707 ITINERA APOSTOLICA per Alemaniam a die 9 ad diem 14 mensis Septembris HOMILIAE I Homilia in celebratione eucharistica Monachii habita apud « Neuen Messe ».* Liebe Schwestern und Brüder! Zunächst möchte ich Euch alle noch einmal ganz herzlich begrüßen: Ich freue mich — und durfte es schon sagen —, daß ich wieder einmal bei Euch sein darf, mit Euch Gottesdienst feiern darf; daß ich noch einmal die vertrauten Stätten besuchen kann, die mein Leben geprägt, mein Denken und Fühlen geformt haben; die Orte, an denen ich glauben und leben gelernt habe. Es ist eine Gelegenheit, all den vielen Lebenden und Verstorbenen zu danken, die mich geführt haben und die mich begleitet haben. Ich danke Gott für diese schöne Heimat und für die Menschen, die sie mir zur Heimat gemacht haben. Wir haben eben die drei Lesungen gehört, die die Liturgie der Kirche für diesen Sonntag ausgewählt hat. Alle drei sind von einem doppelten Thema bestimmt, von dem sie je nachdem die eine oder andere Seite mehr betonen, das aber letztlich doch ein einziges Thema bleibt. Alle drei Lesungen sprechen von Gott als Zentrum der Wirklichkeit und als Zentrum unseres eigenen Lebens. »Seht, Gott ist da!« ruft der Prophet Jesaja uns in der ersten Lesung zu.1 Der Jakobus-Brief und das Evangelium sagen auf ihre Weise dasselbe. Sie wollen uns zu Gott hinführen und uns so auf den richtigen Weg des Lebens bringen. Mit dem Thema Gott ist aber das soziale Thema, unsere Verantwortung füreinander, für die Herrschaft von Gerechtigkeit und Liebe in der Welt verbunden. Dramatisch wird das in der Lesung zu Worte gebracht, in der Jakobus, ein naher Verwandter Jesu, zu uns spricht. Er redet zu einer Gemeinde, in der man anfängt, stolz zu sein, wenn es da auch reiche und vornehme Leute gibt, während die Sorge um das Recht für die Armen zu * Die 10 Septembris 2006. 1 35, 4. 708 Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale verkümmern droht. Jakobus läßt in seinen Worten das Bild Jesu durchscheinen, des Gottes, der Mensch wurde und, obgleich davidischer, also königlicher Herkunft, ein Einfacher unter den Einfachen wurde, sich auf keinen Thron setzte, sondern am Ende in der letzten Armut des Kreuzes starb. Die Nächstenliebe, die zuallererst Sorge um die Gerechtigkeit ist, ist der Prüfstein des Glaubens und der Gottesliebe. Jakobus nennt sie das »königliche Gesetz«. Er läßt darin das Lieblingswort Jesu durchblicken: das Königtum Gottes, die Herrschaft Gottes. Damit ist nicht irgendein Reich gemeint, das irgendwann einmal kommt, sondern damit ist gemeint, daß Gott jetzt bestimmend werden muß für unser Leben und Handeln. Darum bitten wir, wenn wir sagen: Dein Reich komme; wir beten nicht um irgend etwas Entferntes, das wir selber eigentlich gar nicht zu erleben wünschen. Wir beten vielmehr darum, daß jetzt Gottes Wille unseren Willen bestimme und so Gott in der Welt herrsche; also darum beten wir, daß Recht und Liebe entscheidend werden in der Ordnung der Welt. Eine solche Bitte richtet sich natürlich zuerst an Gott, aber sie rüttelt auch an unser eigenes Herz. Wollen wir das eigentlich? Leben wir in dieser Richtung? Jakobus nennt das »königliche Gesetz«, das Gesetz von Gottes Königtum, zugleich Gesetz der Freiheit: Wenn alle von Gott her denken und leben, dann werden wir gleich, und dann werden wir frei, und dann entsteht die wahre Geschwisterlichkeit. Wenn Jesaja in der ersten Lesung von Gott spricht — »Gott ist da!« —, dann redet er zugleich vom Heil für die Leidenden, und wenn Jakobus von der sozialen Ordnung als dringlichem Ausdruck unseres Glaubens spricht, dann redet er ganz selbstverständlich von Gott, dessen Kinder wir sind. Aber jetzt müssen wir uns dem Evangelium zuwenden, das von der Heilung eines Taubstummen durch Jesus spricht. Auch da sind wieder die beiden Seiten des einen Themas da. Jesus wendet sich den Leidenden zu, denen, die an den Rand der Gesellschaft gedrängt sind. Er heilt sie und führt sie so in die Möglichkeit des Mitlebens und des Mitentscheidens, in die Gleichheit und Brüderlichkeit ein. Das geht natürlich uns alle an: Jesus zeigt uns allen die Richtung unseres Tuns, die Richtung, wie wir handeln sollen. Der ganze Vorgang hat aber noch eine andere Dimension, auf die die Kirchenväter in ihren Auslegungen mit Nachdruck hingewiesen haben und die auch uns heute in hohem Maße angeht. Die Väter sprechen von den Menschen und zu den Menschen ihrer Zeit. Aber was sie sagen, geht auf neue Weise auch uns heute an. Es gibt nicht nur die physische Gehörlosigkeit, die den Menschen weitgehend vom sozialen Le- Acta Benedicti Pp. XVI 709 ben abschneidet. Es gibt eine Schwerhörigkeit Gott gegenüber, an der wir gerade in dieser Zeit leiden. Wir können ihn einfach nicht mehr hören — zu viele andere Frequenzen haben wir im Ohr. Was über ihn gesagt wird, erscheint vorwissenschaftlich, nicht mehr in unsere Zeit hereinpassend. Mit der Schwerhörigkeit oder gar Taubheit Gott gegenüber verliert sich natürlich auch unsere Fähigkeit, mit ihm und zu ihm zu sprechen. Auf diese Weise aber fehlt uns eine entscheidende Wahrnehmung. Unsere inneren Sinne drohen abzusterben. Mit diesem Verlust an Wahrnehmung wird der Radius unserer Beziehung zur Wirklichkeit überhaupt drastisch und gefährlich eingeschränkt. Der Raum unseres Lebens wird in bedrohlicher Weise reduziert. Das Evangelium erzählt uns, daß Jesus seine Finger in die Ohren des Tauben legte, etwas von seinem Speichel auf seine Zunge gab und sagte: »Ephata — tu dich auf!« Der Evangelist hat uns das original aramäische Wort aufbewahrt, das Jesus gesprochen hat, und führt uns so direkt in jenen Augenblick hinein. Was da erzählt wird, ist einmalig und gehört doch nicht einer fernen Vergangenheit an: Jesus tut dasselbe auf neue Weise auch heute und immer wieder. In unserer Taufe hat Jesus an uns diese Geste des Berührens vollzogen und gesagt: »Ephata – tu dich auf!«, um uns hörfähig zu machen für Gott und so auch wieder das Sprechenkönnen zu Gott zu schenken. Aber dieser Vorgang, das Sakrament der Taufe, hat nichts Magisches an sich. Die Taufe eröffnet einen Weg. Sie führt uns ein in die Gemeinschaft der Hörenden und Redenden — in die Gemeinschaft mit Jesus selber, der als einziger Gott gesehen hat und deshalb von ihm erzählen konnte: 2 Durch den Glauben will er uns an seinem Sehen Gottes, an seinem Hören und Reden mit dem Vater beteiligen. Der Weg des Getauftseins muß ein Prozeß des Wachstums werden, in dem wir in das Leben mit Gott hineinwachsen und so auch einen anderen Blick auf den Menschen und auf die Schöpfung gewinnen. Das Evangelium lädt uns ein, wieder zu erkennen, daß es bei uns ein Defizit in unserer Wahrnehmungsfähigkeit gibt — einen Mangel, den wir zunächst gar nicht als solchen spüren, weil ja alles andere sich durch seine Dringlichkeit und Einsichtigkeit empfiehlt; weil ja scheinbar alles normal weitergeht, auch wenn wir keine Ohren und Augen mehr für Gott haben und ohne ihn leben. Aber geht es wirklich einfach so weiter, wenn Gott in unserem Leben, in unserer Welt ausfällt? Bevor wir da weiterfragen, möchte 2 Vgl. Joh 1, 18. 710 Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale ich ein wenig aus meinen Erfahrungen in der Begegnung mit den Bischöfen der Welt erzählen. Die katholische Kirche in Deutschland ist großartig durch ihre sozialen Aktivitäten, durch die Bereitschaft zu helfen, wo immer es not tut. Immer wieder erzählen mir die Bischöfe, zuletzt aus Afrika, bei ihren AdLimina-Besuchen dankbar von der Großherzigkeit der deutschen Katholiken und beauftragen mich, diesen Dank weiterzugeben, was ich hiermit einmal öffentlich tun möchte. Auch die Bischöfe aus den baltischen Ländern, die vor den Ferien da waren, haben mir berichtet, wie großartig ihnen deutsche Katholiken beim Wiederaufbau ihrer durch Jahrzehnte kommunistischer Herrschaft schlimm zerstörten Kirchen halfen. Dann und wann aber sagt ein afrikanischer Bischof zu mir: »Wenn ich in Deutschland soziale Projekte vorlege, finde ich sofort offene Türen. Aber wenn ich mit einem Evangelisierungsprojekt komme, stoße ich eher auf Zurückhaltung«. Offenbar herrscht da bei manchen die Meinung, die sozialen Projekte müsse man mit höchster Dringlichkeit voranbringen; die Dinge mit Gott oder gar mit dem katholischen Glauben seien doch eher partikulär und nicht so vordringlich. Und doch ist es gerade die Erfahrung dieser Bischöfe, daß die Evangelisierung vorausgehen muß; daß der Gott Jesu Christi bekannt, geglaubt, geliebt werden, die Herzen umkehren muß, damit auch die sozialen Dinge vorangehen; damit Versöhnung werde; damit zum Beispiel Aids wirklich von den tiefen Ursachen her bekämpft und die Kranken mit der nötigen Zuwendung und Liebe gepflegt werden können. Das Soziale und das Evangelium sind einfach nicht zu trennen. Wo wir den Menschen nur Kenntnisse bringen, Fertigkeiten, technisches Können und Gerät, bringen wir zu wenig. Dann treten die Techniken der Gewalt ganz schnell in den Vordergrund und die Fähigkeit zum Zerstören, zum Töten wird zur obersten Fähigkeit, zur Fähigkeit, um Macht zu erlangen, die dann irgendwann einmal das Recht bringen soll und es doch nicht bringen kann: Man geht so nur immer weiter fort von der Versöhnung, vom gemeinsamen Einsatz für die Gerechtigkeit und die Liebe. Die Maßstäbe, nach denen Technik in den Dienst des Rechts und der Liebe tritt, gehen dann verloren, aber auf diese Maßstäbe kommt alles an: Maßstäbe, die nicht nur Theorien sind, sondern das Herz erleuchten und so den Verstand und das Tun auf den rechten Weg bringen. Die Völker Afrikas und Asiens bewundern zwar die technischen Leistungen des Westens und unsere Wissenschaft, aber sie erschrecken vor einer Art von Vernünftigkeit, die Gott total aus dem Blickfeld des Menschen ausgrenzt Acta Benedicti Pp. XVI 711 und dies für die höchste Art von Vernunft ansieht, die man auch ihren Kulturen beibringen will. Nicht im christlichen Glauben sehen sie die eigentliche Bedrohung ihrer Identität, sondern in der Verachtung Gottes und in dem Zynismus, der die Verspottung des Heiligen als Freiheitsrecht ansieht und Nutzen für zukünftige Erfolge der Forschung zum letzten Maßstab erhebt. Liebe Freunde! Dieser Zynismus ist nicht die Art von Toleranz und von kultureller Offenheit, auf die die Völker warten und die wir alle wünschen. Die Toleranz, die wir dringend brauchen, schließt die Ehrfurcht vor Gott ein — die Ehrfurcht vor dem, was dem anderen heilig ist. Diese Ehrfurcht vor dem Heiligen der anderen setzt aber wiederum voraus, daß wir selbst die Ehrfurcht vor Gott wieder lernen. Diese Ehrfurcht kann in der westlichen Welt nur dann regeneriert werden, wenn der Glaube an Gott wieder wächst, wenn Gott für uns und in uns wieder gegenwärtig wird. Wir drängen unseren Glauben niemandem auf: Diese Art von Proselytismus ist dem Christlichen zuwider. Der Glaube kann nur in Freiheit geschehen. Aber die Freiheit der Menschen, die rufen wir an, sich für Gott aufzutun; ihn zu suchen; ihm Gehör zu schenken. Wir, die wir hier sind, bitten den Herrn von ganzem Herzen, daß er wieder sein Ephata zu uns sagt; daß er unsere Schwerhörigkeit für Gott, für sein Wirken und sein Wort, heilt und uns sehend und hörend macht. Wir bitten ihn, daß er uns hilft, wieder das Wort des Gebetes zu finden, zu dem er uns in der Liturgie einlädt und dessen ABC er uns im Vaterunser gelehrt hat. Die Welt braucht Gott. Wir brauchen Gott. Welchen Gott brauchen wir? In der ersten Lesung sagt der Prophet zu einem unterdrückten Volk: »Die Rache Gottes wird kommen«.3 Wir können uns gut ausdenken, wie die Menschen sich das vorgestellt haben. Aber der Prophet selber sagt dann, worin diese Rache besteht, nämlich in der heilenden Güte Gottes. Und die endgültige Auslegung des Prophetenwortes finden wir in dem, der für uns am Kreuz gestorben ist — in Jesus, dem menschgewordenen Sohn Gottes, der uns hier so eindringlich anschaut. Seine »Rache« ist das Kreuz: das Nein zur Gewalt, die »Liebe bis zum Ende«. Diesen Gott brauchen wir. Wir verletzen nicht den Respekt vor anderen Religionen und Kulturen, wir verletzen nicht die Ehrfurcht vor ihrem Glauben, wenn wir uns laut und eindeutig zu dem Gott bekennen, der der Gewalt sein Leiden entgegengestellt hat; der dem 3 Vgl. 35, 4. 712 Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale Bösen und seiner Macht gegenüber als Grenze und Überwindung sein Erbarmen aufrichtet. Ihn bitten wir, daß er unter uns sei und daß er uns helfe, ihm glaubwürdige Zeugen zu sein. Amen. II Vesperarum celebratione in cathedrali templo Monacensi.* Liebe Kommunionkinder! Liebe Eltern und Erzieher! Liebe Schwestern und Brüder! Die Lesung, die wir jetzt gerade gehört haben, ist dem letzten Buch der neutestamentlichen Schriften, der sogenannten Offenbarung des Johannes entnommen. Dem Seher wird ein Blick nach oben, in den Himmel, und nach vorn, in die Zukunft, geschenkt. Aber gerade so redet er auch über die Erde und über die Gegenwart, über unser Leben. Wir sind ja im Leben alle unterwegs und gehen auf die Zukunft zu. Und wir wollen den richtigen Weg finden — das wahre Leben entdecken, nicht auf einem Holzweg, nicht in der Wüste enden. Wir möchten nicht am Ende sagen müssen: Ich bin den verkehrten Weg gegangen, mein Leben ist verpfuscht und schief gelaufen. Wir wollen des Lebens froh werden; wir wollen, wie Jesus einmal sagt, »Leben in Fülle haben«. Aber hören wir nun dem Seher der Offenbarung zu. Was hat er uns da gesagt in dieser Lesung, die uns gerade vorgetragen wurde? Er spricht von einer versöhnten Welt. Von einer Welt, in der Menschen »aus allen Nationen und Stämmen, Völkern und Sprachen« in Freude miteinander vereint sind. Und da fragen wir uns: »Wie geht das zu? Was ist der Weg dahin?« Nun, das erste und wichtigste ist: Diese Menschen leben mit Gott zusammen; er hat »sein Zelt über ihnen aufgeschlagen«, heißt es in der Lesung. Da fragen wir uns weiter: »Was ist das, das Zelt Gottes“? Wo ist es? Wie kommen wir ” dahin?« Der Seher spielt da wohl auf das erste Kapitel des Johannes-Evangeliums an, wo es heißt: Das Wort ist Fleisch geworden und hat sein Zelt * Die 10 Septembris 2006. Acta Benedicti Pp. XVI 713 unter uns aufgeschlagen.1 Gott ist nicht weit weg von uns, irgendwo im fernen Weltraum, wo niemand hinkommen kann. Er hat sein Zelt aufgeschlagen bei uns: In Jesus ist er einer von uns geworden, mit Leib und Blut wie wir. Das ist sein Zelt. Und er ist bei der Himmelfahrt nicht irgendwohin weit weggegangen. Sein Zelt, er selbst mit seinem Leib als einer von uns bleibt bei uns. Wir können Du zu ihm sagen, mit ihm reden. Er hört auf uns, und wenn wir aufmerksam sind, hören wir auch, daß er Antworten gibt. Jetzt noch einmal: In Jesus zeltet Gott unter uns. Aber noch einmal auch: Wo ist das nun genau? Unsere Lesung gibt zwei Antworten darauf. Sie sagt von den versöhnten Menschen, daß sie »ihre Kleider im Blut des Lammes gewaschen haben« und daß so ihre Gewänder weiß geworden sind. Das klingt für uns sehr seltsam. In der verschlüsselten Sprache des Sehers ist das ein Hinweis auf die Taufe. Das Wort vom »Blut des Lammes« deutet hin auf die Liebe Jesu, die er bis in den blutigen Tod hinein durchgehalten hat. Diese zugleich göttliche und menschliche Liebe ist das Bad, in das er uns in der Taufe eintaucht — das Bad, mit dem er uns so wäscht, sauber macht, daß wir zu Gott passen und mit ihm zusammenleben können. Der Akt der Taufe ist aber nur ein Anfang. Im Mitgehen mit Jesus, im Glauben und im Leben mit ihm rührt seine Liebe uns an, die uns reinigt und die uns hell machen will. Die Gewänder sind im Bad dieser Liebe weiß geworden, haben wir gehört. Weiß war nach der Vorstellung der alten Welt die Farbe des Lichtes. Die weißen Gewänder bedeuten, daß wir im Glauben Licht werden, das Dunkel, die Lüge, die Verstellung, das Böse überhaupt ablegen und helle, gottgemäße Menschen werden. Das Taufkleid wie das weiße Kleid bei der Erstkommunion, das Ihr anhabt, möchte uns daran erinnern und sagen: Werde durch das Mitleben mit Jesus und mit der Gemeinschaft der Glaubenden, der Kirche, selbst ein heller Mensch, ein Mensch der Wahrheit und der Güte — ein Mensch, aus dem das Gute, die Güte Gottes selbst herausleuchtet. Die zweite Antwort auf die Frage, wo wir Jesus finden, gibt uns der Seher wieder in seiner verschlüsselten Sprache. Er sagt, daß das Lamm die vielen Menschen aus allen Kulturen und Völkern zu den Quellen des Lebenswassers führt. Ohne Wasser gibt es kein Leben. Das wußten die Menschen, deren Heimat an die Wüste grenzt, sehr genau. So ist für sie das Quellwasser zum Symbol des Lebens überhaupt geworden. Das Lamm, das heißt Jesus, 1 Joh 1, 14. 714 Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale führt die Menschen zu den Quellen des Lebens. Zu diesen Quellen gehört die Heilige Schrift, in der Gott selber zu uns spricht und uns sagt, wie man richtig lebt. Zu diesen Quellen gehört aber dann mehr: Die eigentliche Quelle ist nämlich Jesus selbst, in dem Gott sich uns schenkt. Und das tut er am meisten in der heiligen Kommunion, in der wir sozusagen direkt am Quell des Lebens trinken können: Er kommt zu uns und vereinigt sich mit einem jeden von uns. Wir können es feststellen: Durch die Eucharistie, das Sakrament der Kommunion, bildet sich eine Gemeinschaft über alle Grenzen und Sprachen hin — wir sehen es hier, es sind Bischöfe aus allen Sprachen und Erdteilen da —, durch die Kommunion bildet sich die weltweite Kirche, in der Gott mit uns redet und lebt. Und so sollen wir die heilige Kommunion empfangen: als eine Begegnung mit Jesus, mit Gott selber, der uns zu den Quellen des wirklichen Lebens führt. Liebe Eltern! Ich möchte Euch herzlich einladen, Euren Kindern glauben zu helfen und sie auf ihrem Weg zur ersten Kommunion, der danach ja weiter geht, auf ihrem Weg zu Jesus und mit Jesus zu begleiten. Bitte, geht mit Euren Kindern in die Kirche zur sonntäglichen Eucharistiefeier. Ihr werdet sehen: Das ist keine verlorene Zeit, das hält die Familie richtig zusammen und gibt ihr ihren Mittelpunkt. Der Sonntag wird schöner, die ganze Woche wird schöner, wenn Ihr gemeinsam den Gottesdienst besucht. Und bitte, betet auch zu Hause miteinander: beim Essen, vor dem Schlafengehen. Das Beten führt uns nicht nur zu Gott, sondern auch zueinander. Es ist eine Kraft des Friedens und der Freude. Das Leben in der Familie wird festlicher und größer, wenn Gott dabei ist und seine Nähe im Gebet erlebt wird. Liebe Religionslehrer und Erzieher! Euch bitte ich von Herzen, die Frage nach Gott, nach dem Gott, der sich uns in Jesus Christus gezeigt hat, in der Schule gegenwärtig zu halten. Ich weiß, daß es schwer ist, in unserer pluralistischen Welt den Glauben in der Schule zur Sprache zu bringen. Aber es reicht eben nicht, wenn die Kinder und jungen Menschen in der Schule nur Kenntnisse und technisches Können, aber keine Maßstäbe erlernen, die der Kenntnis und dem Können Richtung und Sinn geben. Regt die Schüler an, nicht nur nach diesem und jenem zu fragen — das ist auch gut — aber zu fragen vor allem auch nach dem Woher und dem Wohin unseres Lebens. Helft ihnen zu erkennen, daß alle Antworten, die nicht bis zu Gott hinkommen, zu kurz sind. Acta Benedicti Pp. XVI 715 Liebe Seelsorger und alle, die in der Pfarrgemeinde helfend tätig sind! Euch bitte ich, alles zu tun, damit die Pfarrei eine innere Heimat für die Menschen wird — eine große Familie, in der wir zugleich die noch größere Familie der weltweiten Kirche erleben und durch den Gottesdienst, die Katechese und durch alle Weisen des pfarrlichen Lebens miteinander den Weg des wahren Lebens zu gehen lernen. Alle drei Lernorte — Familie, Schule, Pfarrgemeinde — gehören zusammen und helfen uns, zu den Quellgründen des Lebens zu finden, und — liebe Kinder, liebe Eltern, liebe Erzieher — wir alle wollen doch wahrhaft das Leben in Fülle haben! Amen. III Eucharistica celebratio in area Sanctuarii Ottingae Veteris.* Liebe Mitbrüder im priesterlichen und bischöflichen Dienst! Liebe Schwestern und Brüder! In Lesung, Antwortgesang und Evangelium dieses Tages treffen wir dreimal Maria, die Mutter des Herrn, in je verschiedener Weise als Betende an. In der Apostelgeschichte finden wir sie in der Mitte der Gemeinschaft der Jünger, die sich im Abendmahlssaal versammelt haben und nun den zum Vater aufgestiegenen Herrn anrufen, daß er seine Verheißung erfülle: »In wenigen Tagen werdet ihr mit dem Heiligen Geist getauft werden«.1 Maria führt die werdende Kirche im Gebet an, sie ist gleichsam die betende Kirche in Person. Und so steht sie mit der großen Gemeinschaft der Heiligen als deren Mitte noch immer vor Gott und bittet für uns, bittet ihren Sohn darum, daß er der Kirche und der Welt neu seinen Geist sende und das Angesicht der Erde erneuere. Wir haben auf die Lesung geantwortet, indem wir mit Maria den großen Lobgesang gesungen haben, den sie angestimmt hat, als Elisabeth sie ihres Glaubens wegen seliggepriesen hatte. Dies ist ein Gebet des Dankes, der Freude an Gott, der Lobpreisung für seine großen Taten. Der Grundton * Die 11 Septembris 2006. 1 Apg 1, 5. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 716 dieses Liedes ist gleich im ersten Wort angegeben: Meine Seele macht den Herrn groß. Gott groß machen, das heißt ihm Raum geben in der Welt, im eigenen Leben, ihn einlassen in unsere Zeit und in unser Tun — dies ist das tiefste Wesen des rechten Betens. Wo Gott groß wird, wird der Mensch nicht klein: Da wird auch der Mensch groß, und die Welt wird hell. Schließlich: Im Evangelium richtet Maria zugunsten von Freunden, die in Verlegenheit sind, eine Bitte an ihren Sohn. Auf den ersten Blick kann dies als ein ganz menschliches Gespräch zwischen Mutter und Sohn erscheinen, und ein Gespräch von tiefster Menschlichkeit ist es ja auch. Aber Maria redet Jesus doch nicht einfach als einen Menschen an, auf dessen Phantasie und Hilfsbereitschaft sie etwa bauen würde. Sie vertraut menschliche Not seiner Macht an — einer Macht, die über menschliches Können und Vermögen hinausgeht. Und so sehen wir sie im Gespräch mit Jesus doch als bittende, als fürbittende Mutter. Es lohnt sich, in dieses Evangelium tiefer hineinzuhören: Um Jesus und Maria besser zu verstehen, aber gerade auch, um von Maria das rechte Beten zu erlernen. Maria richtet keine eigentliche Bitte an Jesus; sie sagt ihm nur: »Sie haben keinen Wein mehr«.2 Hochzeiten im Heiligen Land dauerten eine ganze Woche lang; das ganze Dorf war beteiligt, und so wurden große Mengen Weines gebraucht. Nun sind die Brautleute in Verlegenheit, und Maria sagt es Jesus ganz einfach. Sie bittet nicht um irgend etwas Bestimmtes, schon gar nicht darum, daß Jesus seine Macht ausübe, ein Mirakel wirke, Wein produziere. Sie vertraut Jesus nur einfach die Sache an und überläßt es ihm, was er daraufhin tut. So sehen wir in den einfachen Worten der Mutter Jesu zweierlei: Einerseits ihre liebevolle Fürsorge für die Menschen, ihre mütterliche Wachheit, mit der sie die Bedrängnis der anderen wahrnimmt; wir sehen ihre herzliche Güte und ihre Hilfsbereitschaft. Zu dieser Mutter pilgern die Menschen seit Generationen hier nach Altötting. Ihr vertrauen wir unsere Sorgen, Nöte und Bedrängnisse an. Die helfende Güte der Mutter, der wir uns anvertrauen — hier sehen wir sie zum ersten Mal in der Heiligen Schrift. Aber zu diesem ersten und uns allen vertrauten Aspekt kommt noch ein zweiter, den wir leicht übersehen: Maria überläßt alles dem Herrn. Sie hat in Nazareth ihren Willen in Gottes Willen hineingegeben: »Siehe, ich bin die Magd des Herrn. Mir geschehe nach deinem Wort«.3 2 3 Joh 2, 3. Lk 1, 38. Acta Benedicti Pp. XVI 717 Das ist ihre bleibende Grundhaltung. Und so lehrt sie uns beten: Nicht unseren Willen und unsere Wünsche — so wichtig, so einsichtig sie uns auch sein mögen — Gott gegenüber durchsetzen wollen, sondern sie zu ihm hintragen und ihm überlassen, was er tun wird. Von Maria lernen wir die helfende Güte, aber auch die Demut und die Großzügigkeit, Gottes Willen anzunehmen und ihm zu vertrauen, ihm zu glauben, daß seine Antwort, wie sie auch sein wird, das wahrhaft Gute für uns, für mich ist. Das Verhalten und die Worte Marias, glaube ich, können wir sehr gut begreifen; um so schwerer fällt es uns, die Antwort Jesu zu verstehen. Schon die Anrede gefällt uns nicht: »Frau« — warum sagt er nicht: Mutter? Nun, diese Anrede drückt die Stellung Marias in der Heilsgeschichte aus. Sie weist voraus auf die Stunde der Kreuzigung, in der Jesus zu ihr sagen wird: Frau, siehe deinen Sohn — Sohn, siehe deine Mutter. Sie weist so voraus auf die Stunde, in der er die Frau, seine Mutter, zur Mutter aller Jünger machen wird. Und sie weist zurück auf den Bericht von der Erschaffung Evas: Adam sah sich als Mensch allein in der Schöpfung bei all ihrem Reichtum. Da wird Eva geschaffen, und nun hat er die Gefährtin gefunden, auf die er wartete und die er mit dem Wort »Frau« benannte. So steht Maria als die neue, die endgültige Frau im Johannes-Evangelium, als die Gefährtin des Erlösers, als unsere Mutter: Die scheinbar abweisende Anrede drückt die Größe ihrer bleibenden Sendung aus. Aber noch weniger gefällt uns, was Jesus dann in Kana zu Maria sagt: »Was willst du von mir, Frau?« Wörtlich heißt es sogar: »Was habe ich mit dir zu tun, Frau? Meine Stunde ist noch nicht gekommen.« Wir möchten einwenden: Viel hast du zu tun mit ihr. Sie hat dir Fleisch und Blut gegeben, deinen Leib. Und nicht nur den Leib; sie hat dich mit ihrem aus dem Herzen kommenden Ja getragen und dich mit mütterlicher Liebe ins Leben, in die Gemeinschaft des Volkes Israel eingeführt und eingelebt. Wenn wir so mit Jesus reden, sind wir aber schon auf dem Weg, seine Antwort zu verstehen. Denn all das muß uns daran erinnern, daß es bei der Menschwerdung Jesu zwei Dialoge gibt, die zusammen gehören und zu einem einzigen ineinander verschmelzen. Da ist zunächst der Dialog, den Maria mit dem Erzengel Gabriel führt und in dem sie sagt: »Mir geschehe nach deinem Wort«.4 Dazu aber 4 Lk 1, 38. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 718 gibt es eine Parallele, sozusagen einen innergöttlichen Dialog, von dem uns der Hebräer-Brief erzählt, wenn er sagt, daß die Worte des Psalms 40 gleichsam zu einem Gespräch zwischen Vater und Sohn geworden sind, in dem sich die Menschwerdung eröffnet. Der ewige Sohn sagt zum Vater: »Opfer und Gaben hast du nicht gewollt, einen Leib hast du mir bereitet... Siehe, ich komme...deinen Willen zu tun«.5 Das Ja des Sohnes »Ich komme, deinen Willen zu tun« und das Ja Marias »Mir geschehe nach deinem Wort« — dieses doppelte Ja wird zu einem einzigen Ja, und so wird das Wort Fleisch in Maria. In diesem doppelten Ja nimmt der Sohnesgehorsam Leib an; schenkt Maria mit ihrem Ja ihm den Leib. »Frau, was habe ich mit dir zu tun?« Was sie im tiefsten miteinander zu tun haben, ist dieses zweifache Ja, in dessen Zusammenfallen die Menschwerdung geschehen ist. Auf diesen Punkt ihrer tiefsten Einheit miteinander führt der Herr mit seiner Antwort hin, dorthin verweist er die Mutter. Dort, in dem gemeinsamen Ja zum Willen des Vaters findet sich die Lösung. Und zu diesem Punkt sollen auch wir immer neu hingehen lernen; dort wird Antwort auf unsere Fragen. Von da aus verstehen wir nun auch den zweiten Satz der Antwort Jesu: Meine Stunde ist noch nicht gekommen. Jesus handelt nie einfach aus Eigenem; niemals, um nach außen zu gefallen. Er handelt immer vom Vater her, und gerade das eint ihn mit Maria, denn dorthin, in diese Willenseinheit mit dem Vater, wollte auch sie ihre Bitte legen. Deswegen kann sie erstaunlicherweise nach der scheinbar abweisenden Antwort Jesu ganz einfach zu den Dienern sagen: »Was er euch sagt, das tut«.6 Jesus wirkt kein Mirakel, spielt nicht mit seiner Macht in einer eigentlich ganz privaten Angelegenheit. Nein, er wirkt ein Zeichen, mit dem er seine Stunde ankündigt, die Stunde der Hochzeit, die Stunde der Vereinigung zwischen Gott und Mensch. Er »macht« nicht einfach Wein, sondern er verwandelt die menschliche Hochzeit in ein Bild des göttlichen Hochzeitsfestes, zu dem der Vater durch den Sohn einlädt und in dem er die Fülle des Guten schenkt, die in der Fülle des Weines dargestellt ist. Die Hochzeit wird zum Bild jenes Augenblickes, in dem Jesus die Liebe bis zum Äußersten führt, seinen Leib aufreißen läßt und so sich für immer uns schenkt, Einheit mit uns wird - Hochzeit zwischen Gott und Mensch. Die Stunde des Kreuzes, die Stunde, von der das Sakrament kommt, 5 6 Hebr 10, 5-7; Ps 40, 6-8. Joh 2, 5. Acta Benedicti Pp. XVI 719 in dem er wirklich sich uns mit Fleisch und Blut gibt, seinen Leib in unsere Hände und unser Herz legt — das ist die Stunde der Hochzeit. Und so wird auf wahrhaft göttliche Weise auch die Not des Augenblicks gelöst und die anfängliche Frage weit überschritten. Jesu Stunde ist noch nicht da, aber im Zeichen der Verwandlung von Wasser in Wein, im Zeichen der festlichen Gabe nimmt er seine Stunde jetzt schon vorweg. Seine »Stunde« ist das Kreuz. Seine endgültige Stunde ist seine Wiederkunft. Immerfort nimmt er gerade auch diese endgültige Stunde vorweg in der heiligen Eucharistie, in der er immer jetzt schon kommt. Und immer neu tut er es auf die Fürbitte seiner Mutter, auf die Fürbitte der Kirche hin, die in den eucharistischen Gebeten ihn anruft: Komm, Herr Jesus! Im Hochgebet bittet die Kirche ihn immer neu um diese Vorwegnahme der Stunde — darum, daß er jetzt schon komme und sich uns schenke. So wollen wir uns von Maria, von der Gnadenmutter von Altötting, von der Mutter aller Glaubenden auf die Stunde Jesu zuführen lassen. Bitten wir ihn, daß er uns schenkt, ihn immer mehr zu erkennen und zu verstehen. Und lassen wir das Empfangen nicht auf den Augenblick der Kommunion beschränkt sein. Er bleibt da in der heiligen Hostie und wartet immerfort auf uns. Die Anbetung des Herrn in der Eucharistie hat in Altötting in der alten Schatzkammer einen neuen Ort gefunden. Maria und Jesus gehören zusammen. Mit ihr wollen wir im Gespräch mit dem Herrn bleiben und so ihn besser empfangen lernen. Heilige Mutter Gottes, bitte für uns, wie du in Kana für die Brautleute gebeten hast. Führe uns zu Jesus — immer von neuem. Amen. IV Homilia ad Mariales Vesperas apud Basilicam Sanctae Annae in urbe Ottinga Vetere.* Liebe Freunde! Wir sind hier am Gnadenort Altötting in der Basilika der heiligen Anna gegenüber dem Heiligtum ihrer Tochter, der Mutter des Herrn, versammelt * Die 11 Septembris 2006. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 720 — Seminaristen auf dem Weg zum Priestertum, Priester, Ordensleute, Mitglieder des Werkes für geistliche Berufe —, versammelt, um nach unserer Berufung für den Dienst Jesu Christi zu fragen und bei der heiligen Anna, in deren Haus die größte Berufung der Heilsgeschichte gereift ist, unsere Berufung zu erlernen. Maria empfing ihre Berufung aus dem Mund des Engels. In unsere Stube tritt der Engel nicht sichtbar ein, aber mit jedem von uns hat der Herr seinen Plan; ein jeder wird von ihm bei seinem Namen gerufen. So ist unser Auftrag, hörend zu werden, fähig, seinen Anruf zu vernehmen, mutig und treu zu werden, damit wir ihm folgen und am Schluß als zuverlässige Knechte befunden werden, die recht mit der anvertrauten Gabe gewirkt haben. Wir wissen, der Herr sucht Arbeiter für seine Ernte. Er selber hat es gesagt: »Die Ernte ist groß, aber der Arbeiter sind wenige. Bittet daher den Herrn der Ernte, Arbeiter für seine Ernte auszusenden«.1 Dazu haben wir uns hier versammelt, diese Bitte zum Herrn der Ernte hinaufzuschicken. Ja, die Ernte Gottes ist groß und wartet auf Arbeiter — in der sogenannten dritten Welt, in Lateinamerika, in Afrika, in Asien warten die Menschen auf Boten, die ihnen das Evangelium des Friedens, die Botschaft von dem menschgewordenen Gott bringen. Und auch im sogenannten Westen, bei uns in Deutschland wie auch in den Weiten Rußlands gilt, daß die Ernte groß sein könnte. Aber es fehlen die Menschen, die bereit sind, sich zu Gottes Erntearbeitern zu machen. Es steht heute wie damals, als den Herrn das Mitleid erschütterte über Menschen, die ihm wie Schafe ohne Hirten erschienen — Menschen, die gewiß alles Mögliche wußten, aber nicht sehen konnten, wie ihr Leben recht zu ordnen sei. Herr, schau die Not dieser unserer Stunde an, die Boten des Evangeliums braucht, Zeugen für dich, Wegweiser zum »Leben in Fülle«! Sieh die Welt und laß dich auch jetzt vom Mitleid erschüttern! Sieh die Welt an und schicke Arbeiter! Mit dieser Bitte klopfen wir an der Tür Gottes an; aber mit dieser Bitte klopft dann der Herr auch an unser eigenes Herz. Herr, willst du mich? Ist es nicht zu groß für mich? Bin ich nicht zu klein dazu? Fürchte dich nicht, hat der Engel zu Maria gesagt. Fürchte dich nicht, ich habe dich bei deinem Namen gerufen, sagt er durch den Propheten Jesaja zu uns 2 — zu jedem einzelnen von uns. 1 2 Mt 9, 37f. 43, 1. Acta Benedicti Pp. XVI 721 Wohin gehen wir, wenn wir Ja sagen zum Ruf des Herrn? Die kürzeste Beschreibung der priesterlichen Sendung, die in analoger Weise auch für die Ordensleute gilt, hat uns der Evangelist Markus geschenkt, der bei der Erzählung von der Berufung der Zwölf sagt: »Er machte zwölf, damit sie bei ihm seien und damit er sie sende«.3 Bei ihm sein und als Gesandter auf dem Weg zu den Menschen — das gehört zusammen und bildet zusammen das Wesen des geistlichen Berufs, des Priestertums. Bei ihm sein und gesandt sein — das ist nicht voneinander zu trennen. Nur wer bei »Ihm« ist, lernt ihn kennen und kann ihn recht verkünden. Und wer bei ihm ist, behält es nicht für sich, sondern muß weitergeben, was er gefunden hat. Es geht ihm wie dem Andreas, der seinem Bruder Simon sagte: »Wir haben den Messias gefunden«.4 Der Evangelist fügt hinzu: »Und er führte ihn zu Jesus«.5 Papst Gregor der Große hat in einer Predigt einmal gesagt: In welche Weiten die Engel Gottes mit ihren Sendungen auch gehen, sie bewegen sich immer innerhalb Gottes. Sie sind immer bei ihm. Und wenn er von den Engeln sprach, dachte er auch an die Bischöfe und Priester: Wo immer sie hingehen, sie sollten doch immer »bei ihm« bleiben. Die Praxis zeigt es uns: Wo Priester das Sein beim Herrn wegen der großen Aufgaben immer kürzer und geringer werden lassen, da verlieren sie bei aller vielleicht heroischen Aktivität am Ende die innere Kraft, die sie trägt. Was sie tun, wird zuletzt zu leerem Aktivismus. Bei ihm sein, wie geht das? Nun, das erste und wichtigste ist für den Priester die täglich von innen her gefeierte heilige Messe. Wenn wir sie wirklich als betende Menschen feiern, unser Wort und unser Tun mit dem uns vorausgehenden Wort und der Gestalt der Eucharistiefeier vereinigen, wenn wir in der Kommunion uns wirklich von ihm umfangen lassen, ihn empfangen — dann sind wir bei ihm. Das Stundengebet ist eine grundlegende Weise des Seins bei ihm: Da beten wir als des Gesprächs mit Gott bedürftige Menschen, aber da nehmen wir auch die anderen Menschen mit, die nicht Zeit und Möglichkeit zu solchem Beten haben. Damit unsere Eucharistiefeier und das Stundengebet von innen gefüllt bleiben, müssen wir auch immer wieder die Heilige Schrift geistlich lesen; nicht nur Worte aus der Vergangenheit enträtseln, sondern nach dem gegenwärtigen Zuspruch des Herrn an mich suchen, der heute durch 3 4 5 Mk 3, 14. Joh 1, 41. Joh 1, 42. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 722 dieses Wort mit mir spricht. Nur so können wir das heilige Wort als gegenwärtiges Wort Gottes zu den Menschen dieser unserer Zeitbringen. Eine wesentliche Weise des Mitseins mit dem Herrn ist die eucharistische Anbetung. Altötting hat dank Bischof Schraml eine neue Schatzkammer erhalten. Wo einst die Schätze der Vergangenheit, Kostbarkeiten der Geschichte und der Frömmigkeit aufbewahrt wurden, ist jetzt der Ort für den eigentlichen Schatz der Kirche: die ständige Gegenwart des Herrn in seinem Sakrament. Der Herr erzählt uns in einem seiner Gleichnisse von dem im Acker verborgenen Schatz. Wer ihn gefunden hat, so sagt er uns, verkauft alles, um den Acker erwerben zu können, weil der versteckte Schatz alle anderen Werte übertrifft. Der verborgene Schatz, das Gut über alle Güter, ist das Reich Gottes — ist er selbst, das Reich in Person. In der heiligen Hostie ist er da, der wahre Schatz, für uns immer zugänglich. Im Anbeten dieser seiner Gegenwart lernen wir erst, ihn recht zu empfangen — lernen wir das Kommunizieren, lernen wir die Feier der Eucharistie von innen her. Ich darf dazu ein schönes Wort von Edith Stein, der heiligen Mitpatronin Europas, zitieren, die in einem Brief geschrieben hat: »Der Herr ist im Tabernakel gegenwärtig mit Gottheit und Menschheit. Er ist da, nicht Seinetwegen, sondern unseretwegen: weil es Seine Freude ist, bei den Menschen zu sein. Und weil Er weiß, daß wir, wie wir nun einmal sind, Seine persönliche Nähe brauchen. Die Konsequenz ist für jeden natürlich Denkenden und Fühlenden, daß er sich hingezogen fühlt und dort ist, sooft und solange er darf«.6 Lieben wir es, beim Herrn zu sein. Da können wir alles mit ihm bereden. Unsere Fragen, unsere Sorgen, unsere Ängste. Unsere Freuden. Unsere Dankbarkeit, unsere Enttäuschungen, unsere Bitten und Hoffnungen. Da können wir es ihm auch immer wieder sagen: Herr, sende Arbeiter in deine Ernte. Hilf mir, ein guter Arbeiter in deinem Weinberg zu sein. Hier in dieser Basilika denken wir dabei an Maria, die ganz im Mitsein mit Jesus lebte und deshalb auch ganz für die Menschen da war und es bis heute ist: Die Votivtafeln zeigen es uns ganz praktisch. Und wir denken an die heilige Mutter Anna. So denken wir auch an die Bedeutung der Mütter und der Väter, der Großmütter und der Großväter, an die Bedeutung der Familie als Raum des Lebens und des Betens, in dem Beten gelernt wird und Berufungen reifen können. 6 Gesammelte Werke VII, 136f. Acta Benedicti Pp. XVI 723 Hier in Altötting denken wir natürlich auch ganz besonders an den guten Bruder Konrad. Er hat auf ein großes Erbe verzichtet, weil er ganz Jesus Christus nachfolgen, ganz mit ihm sein wollte. Er hat sich, wie es der Herr im Gleichnis empfiehlt, wirklich auf den letzten Platz gesetzt, als demütiger Pfortenbruder. In seiner Pfortenstube hat er genau das verwirklicht, was uns Markus über die Apostel sagt: Mit ihm sein und gesandt sein zu den Menschen. Er konnte von seiner Zelle aus immer auf den Tabernakel hinschauen, immer »bei ihm sein«. Von diesem Blick her hat er die nicht zu zerstörende Güte gelernt, mit der er den Menschen begegnete, die fast ohne Unterbrechung an seiner Pforte anläuteten — auch manchmal eher bösartig, um ihn bloßzustellen; auch manchmal ungeduldig und laut: Ihnen allen hat er ohne große Worte durch seine Güte und Menschlichkeit eine Botschaft geschenkt, die mehr wert war als bloße Worte. Bitten wir den heiligen Bruder Konrad, daß er uns hilft, den Blick auf den Herrn gerichtet zu halten, und daß er uns so hilft, Gottes Liebe zu den Menschen zu bringen. Amen. V Homilia in eucharistica celebratione Ratisbonae habita apud « Islinger Feld ».* Liebe Mitbrüder im bischöflichen und priesterlichen Dienst! Liebe Schwestern und Brüder! »Wer glaubt, ist nie allein.« Laßt mich noch einmal das Leitwort dieser Tage aufnehmen und die Freude darüber ausdrücken, daß wir es hier sehen dürfen: Der Glaube führt uns zusammen und schenkt uns ein Fest. Er schenkt uns die Freude an Gott, an der Schöpfung, am Miteinandersein. Ich weiß, daß diesem Fest viel Mühe und Arbeit vorangegangen ist. Durch die Berichte der Zeitungen habe ich ein wenig verfolgen können, wie viele Menschen ihre Zeit und ihre Kraft eingesetzt haben, damit dieser Platz so würdig bereitet wurde; daß das Kreuz auf dem Hügel hier steht als Gottes Friedenszeichen in dieser Welt; daß Zufahrt und Abfahrt, Sicherheit und Ordnung gewährleistet sind; daß Quartiere bereitstehen und * Die 12 Septembris 2006. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 724 so fort. Ich hatte mir gar nicht vorstellen können und weiß es auch jetzt nur im großen, allgemeinen, wieviel Kleinarbeit dazu gehörte, daß wir alle jetzt so beieinander sein können. Für all das kann ich nur einfach ein ganz herzliches Vergelt’s Gott sagen. Möge der Herr Euch all das lohnen, und möge die Freude auf jeden einzelnen 100fach zurückfallen, die wir dank Eurer Vorarbeit hier empfangen dürfen. Es ist mir zu Herzen gegangen, wie viele Menschen, besonders aus den Berufsschulen Weiden und Amberg, Firmen und Einzelne, Männer und Frauen, zusammengearbeitet haben, um auch mein kleines Haus und meinen Garten schön zu machen. Auch da kann ich nur ganz beschämt Vergelt’s Gott sagen ob all dieser Mühe. Ihr habt das alles nicht für einen Einzelnen, für meine armselige Person getan; Ihr habt es im letzten in der Solidarität des Glaubens getan, Euch von der Liebe zu Christus und zur Kirche leiten lassen: All dies ist ein Zeichen wahrer Menschlichkeit, die aus dem Berührtsein durch Jesus Christus wächst. Zu einem Fest des Glaubens haben wir uns versammelt. Aber da steigt nun doch die Frage auf: Was glauben wir denn da eigentlich? Was ist das überhaupt, Glaube? Kann es das eigentlich noch geben in der modernen Welt? Wenn man die großen Summen der Theologie ansieht, die im Mittelalter geschrieben wurden, oder an die Menge der Bücher denkt, die jeden Tag für und gegen den Glauben verfaßt werden, möchte man wohl verzagen und denken, das sei alles viel zu kompliziert. Vor lauter Bäumen sieht man am Ende den Wald nicht mehr. Und es ist wahr: Die Vision des Glaubens umfaßt Himmel und Erde; Vergangenheit, Gegenwart, Zukunft, die Ewigkeit und ist darum nie ganz auszuschöpfen. Und doch ist sie in ihrem Kern ganz einfach. Der Herr selber hat ja zum Vater darüber gesagt: »Den Einfachen hast du es offenbaren wollen — denen, die mit dem Herzen sehen können«.1 Die Kirche bietet uns ihrerseits eine ganz kleine Summe an, in der alles Wesentliche gesagt ist: das sogenannte Apostolische Glaubensbekenntnis. Es wird gewöhnlich in zwölf Artikel eingeteilt — nach der Zahl der zwölf Apostel — und handelt von Gott, dem Schöpfer und Anfang aller Dinge, von Christus und seinem Heilswerk bis hin zur Auferstehung der Toten und zum ewigen Leben. Aber in seiner Grundkonzeption besteht das Bekenntnis nur aus drei Hauptstücken, und es ist von seiner Geschichte 1 Vgl. Mt 11, 25. Acta Benedicti Pp. XVI 725 her nichts anderes als eine Erweiterung der Taufformel, die der auferstandene Herr selber den Jüngern für alle Zeiten übergeben hat, als er ihnen sagte: »Geht hin, lehrt die Völker und tauft sie auf den Namen des Vaters, des Sohnes und des Heiligen Geistes«.2 Wenn wir das sehen, zeigt sich zweierlei: Der Glaube ist einfach. Wir glauben an Gott — an Gott, den Ursprung und das Ziel menschlichen Lebens. An den Gott, der sich auf uns Menschen einläßt, der unsere Herkunft und unsere Zukunft ist. So ist Glaube immer zugleich Hoffnung, Gewißheit, daß wir Zukunft haben und daß wir nicht ins Leere fallen. Und der Glaube ist Liebe, weil Gottes Liebe uns anstecken möchte. Das ist das erste: Wir glauben einfach an Gott, und das bringt mit sich auch die Hoffnung und die Liebe. Als zweites können wir feststellen: Das Glaubensbekenntnis ist nicht eine Summe von Sätzen, nicht eine Theorie. Es ist ja verankert im Geschehen der Taufe — in einem Ereignis der Begegnung von Gott und Mensch. Gott beugt sich über uns Menschen im Geheimnis der Taufe; er geht uns entgegen und führt uns so zueinander. Denn Taufe bedeutet, daß Jesus Christus uns sozusagen als seine Geschwister und damit als Kinder in die Familie Gottes hinein adoptiert. So macht er uns damit alle zu einer großen Familie in der weltweiten Gemeinschaft der Kirche. Ja, wer glaubt, ist nie allein. Gott geht auf uns zu. Gehen auch wir Gott entgegen, dann gehen wir aufeinander zu! Lassen wir keines der Kinder Gottes allein, so weit es in unseren Kräften steht! Wir glauben an Gott. Das ist unser Grundentscheid. Aber nun noch einmal die Frage: Kann man das heute noch? Ist das vernünftig? Seit der Aufklärung arbeitet wenigstens ein Teil der Wissenschaft emsig daran, eine Welterklärung zu finden, in der Gott überflüssig wird. Und so soll er auch für unser Leben überflüssig werden. Aber sooft man auch meinen konnte, man sei nahe daran, es geschafft zu haben — immer wieder zeigt sich: Das geht nicht auf. Die Sache mit dem Menschen geht nicht auf ohne Gott, und die Sache mit der Welt, dem ganzen Universum, geht nicht auf ohne ihn. Letztlich kommt es auf die Alternative hinaus: Was steht am Anfang: die schöpferische Vernunft, der Schöpfergeist, der alles wirkt und sich entfalten läßt oder das Unvernünftige, das vernunftlos sonderbarer2 Vgl. Mt 28, 19. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 726 weise einen mathematisch geordneten Kosmos hervorbringt und auch den Menschen, seine Vernunft. Aber die wäre dann nur ein Zufall der Evolution und im letzten also doch auch etwas Unvernünftiges. Wir Christen sagen: Ich glaube an Gott, den Schöpfer des Himmels und der Erde — an den Schöpfergeist. Wir glauben, daß das ewige Wort, die Vernunft am Anfang steht und nicht die Unvernunft. Mit diesem Glauben brauchen wir uns nicht zu verstecken, mit ihm brauchen wir nicht zu fürchten, uns auf einem Holzweg zu befinden. Freuen wir uns, daß wir Gott kennen dürfen, und versuchen wir, auch anderen die Vernunft des Glaubens zugänglich zu machen, wie es der heilige Petrus den Christen seiner Zeit und so auch uns ausdrücklich in seinem ersten Brief aufgetragen hat.3 Wir glauben an Gott. Das stellen die Hauptteile des Glaubensbekenntnisses heraus, und das betont besonders der erste Teil davon. Aber nun folgt sofort die zweite Frage: An welchen Gott? Nun, eben an den Gott, der Schöpfergeist ist, schöpferische Vernunft, von der alles kommt und von der wir kommen. Der zweite Teil des Glaubensbekenntnisses sagt uns mehr. Diese schöpferische Vernunft ist Güte. Sie ist Liebe. Sie hat ein Gesicht. Gott läßt uns nicht im Dunklen tappen. Er hat sich gezeigt als Mensch. So groß ist er, daß er es sich leisten kann, ganz klein zu werden. »Wer mich sieht, sieht den Vater«, sagt Jesus.4 Gott hat ein menschliches Gesicht angenommen. Er liebt uns bis dahin, daß er sich für uns ans Kreuz nageln läßt, um die Leiden der Menschheit zum Herzen Gottes hinaufzutragen. Heute, wo wir die Pathologien und die lebensgefährlichen Erkrankungen der Religion und der Vernunft sehen, die Zerstörungen des Gottesbildes durch Haß und Fanatismus, ist es wichtig, klar zu sagen, welchem Gott wir glauben, und zu diesem menschlichen Antlitz Gottes zu stehen. Erst das erlöst uns von der Gottesangst, aus der letztlich der moderne Atheismus geboren wurde. Erst dieser Gott erlöst uns von der Weltangst und von der Furcht vor der Leere des eigenen Daseins. Erst durch das Hinschauen auf Jesus Christus wird die Freude an Gott voll, wird zur erlösten Freude. Richten wir in dieser festlichen Feier der Eucharistie unseren Blick auf den Herrn, der hier am Kreuz vor uns aufgerichtet ist, und bitten wir 3 4 1 Petr 3, 15. Joh 14, 9. Acta Benedicti Pp. XVI 727 ihn um die große Freude, die er in seiner Abschiedsstunde den Jüngern verheißen hat.5 Der zweite Teil des Bekenntnisses schließt mit dem Ausblick auf das Letzte Gericht und der dritte mit dem der Auferstehung der Toten. Gericht — wird uns da nicht doch wieder Angst gemacht? Aber wollen wir nicht alle, daß einmal all den ungerecht Verurteilten, all denen, die ein Leben lang gelitten haben und aus einem Leben voller Leid in den Tod gehen mußten, daß ihnen allen Gerechtigkeit widerfährt? Wollen wir nicht alle, daß am Ende das Übermaß an Unrecht und Leid, das wir in der Geschichte sehen, sich auflöst; daß alle am Ende froh werden können, daß das Ganze Sinn erhält? Diese Herstellung des Rechts, diese Zusammenfügung der scheinbar sinnlosen Fragmentstücke der Geschichte in ein Ganzes hinein, in dem die Wahrheit und die Liebe regieren: das ist mit dem Weltgericht gemeint. Der Glaube will uns nicht angst machen, aber er will uns zur Verantwortung rufen. Wir dürfen unser Leben nicht verschleudern, nicht mißbrauchen, es nicht einfach für uns selber nehmen; Unrecht darf uns nicht gleichgültig lassen, wir dürfen nicht seine Mitläufer oder sogar Mittäter werden. Wir müssen unsere Sendung in der Geschichte wahrnehmen und versuchen, dieser unserer Sendung zu entsprechen. Nicht Angst, aber Verantwortung — Verantwortung und Sorge um unser Heil, um das Heil der ganzen Welt ist notwendig. Jeder muß seinen Teil dazu beitragen. Wenn aber Verantwortung und Sorge zu Angst werden möchten, dann erinnern wir uns an das Wort des heiligen Johannes: »Meine Kinder, ich schreibe euch dies, damit ihr nicht sündigt. Wenn aber einer sündigt, haben wir einen Anwalt beim Vater: Jesus Christus, den Gerechten«.6 »Wenn unser Herz uns auch verurteilt — Gott ist größer als unser Herz, und er weiß alles«.7 Wir feiern heute das Fest Mariä Namen. So möchte ich all den Frauen, die diesen Namen tragen, meine herzlichen Segenswünsche zu diesem ihrem Festtag aussprechen; meine Mutter und meine Schwester gehören dazu, der Bischof hat es schon gesagt. Maria, die Mutter des Herrn, hat vom gläubigen Volk den Titel Advocata erhalten; sie ist unsere Anwältin bei Gott. So kennen wir sie seit der Hochzeit von Kana: als die gütige, mütterlich 5 6 7 Joh 16, 24. 1 Joh 2, 1. 1 Joh 3, 20. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 728 sorgende und liebende Frau, die die Not der anderen wahrnimmt und sie zum Herrn hinträgt, um zu helfen. Heute haben wir im Evangelium gehört, wie der Herr sie dem Lieblingsjünger und in ihm uns allen zur Mutter gibt. Die Christen haben zu allen Zeiten dankbar dieses Vermächtnis Jesu aufgenommen und bei der Mutter immer wieder die Geborgenheit und die Zuversicht gefunden, die uns Gottes und unseres Glaubens an Ihn froh werden läßt. Nehmen auch wir Maria als den Stern unseres Lebens an, der uns in die große Familie Gottes hineinführt. Ja, wer glaubt, ist nie allein. Amen. ALLOCUTIONES I Summus Pontifex convenit legatos Scientiarum, apud Studiorum Universitatem Ratisbonensem disserens de: « Glaube, Vernunft und Universität. Erinnerungen und Reflexionen ».* Eminenzen, Magnifizenzen, Exzellenzen, verehrte Damen und Herren! Es ist für mich ein bewegender Augenblick, noch einmal in der Universität zu sein und noch einmal eine Vorlesung halten zu dürfen. Meine Gedanken gehen dabei zurück in die Jahre, in denen ich an der Universität Bonn nach einer schönen Periode an der Freisinger Hochschule meine Tätigkeit als akademischer Lehrer aufgenommen habe. Es war — 1959 — noch die Zeit der alten Ordinarien-Universität. Für die einzelnen Lehrstühle gab es weder Assistenten noch Schreibkräfte, dafür aber gab es eine sehr unmittelbare Begegnung mit den Studenten und vor allem auch der Professoren untereinander. In den Dozentenräumen traf man sich vor und nach den Vorlesungen. Die Kontakte mit den Historikern, den Philosophen, den Philologen und natürlich auch zwischen beiden Theologischen Fakultäten waren sehr lebendig. Es gab jedes Semester einen sogenannten * Die 12 Septembris 2006. Acta Benedicti Pp. XVI 729 Dies academicus, an dem sich Professoren aller Fakultäten den Studenten der gesamten Universität vorstellten und so ein Erleben von Universitas möglich wurde — auf das Sie, Magnifizenz, auch gerade hingewiesen haben — die Erfahrung nämlich, daß wir in allen Spezialisierungen, die uns manchmal sprachlos füreinander machen, doch ein Ganzes bilden und im Ganzen der einen Vernunft mit all ihren Dimensionen arbeiten und so auch in einer gemeinschaftlichen Verantwortung für den rechten Gebrauch der Vernunft stehen — das wurde erlebbar. Die Universität war auch durchaus stolz auf ihre beiden Theologischen Fakultäten. Es war klar, daß auch sie, indem sie nach der Vernunft des Glaubens fragen, eine Arbeit tun, die notwendig zum Ganzen der Universitas scientiarum gehört, auch wenn nicht alle den Glauben teilen konnten, um dessen Zuordnung zur gemeinsamen Vernunft sich die Theologen mühen. Dieser innere Zusammenhalt im Kosmos der Vernunft wurde auch nicht gestört, als einmal verlautete, einer der Kollegen habe geäußert, an unserer Universität gebe es etwas Merkwürdiges: zwei Fakultäten, die sich mit etwas befaßten, was es gar nicht gebe — mit Gott. Daß es auch solch radikaler Skepsis gegenüber notwendig und vernünftig bleibt, mit der Vernunft nach Gott zu fragen und es im Zusammenhang der Überlieferung des christlichen Glaubens zu tun, war im Ganzen der Universität unbestritten. All dies ist mir wieder in den Sinn gekommen, als ich kürzlich den von Professor Theodore Khoury (Münster) herausgegebenen Teil des Dialogs las, den der gelehrte byzantinische Kaiser Manuel II. Palaeologos wohl 1391 im Winterlager zu Ankara mit einem gebildeten Perser über Christentum und Islam und beider Wahrheit führte.1 Der Kaiser hat vermutlich während der Belagerung von Konstantinopel zwischen 1394 und 1402 den Dialog aufgezeichnet; so versteht man auch, daß seine eigenen Ausführungen sehr viel 1 Von den insgesamt 26 Gesprächsrunden (dia*keni| – Khoury übersetzt »Controverse«) des Dialogs (»Entretien«) hat Th. Khoury die 7. »Controverse« mit Anmerkungen und einer umfassenden Einleitung über die Entstehung des Textes, die handschriftliche Überlieferung und die Struktur des Dialogs sowie kurze Inhaltsangaben über die nicht edierten »Controverses« herausgegeben; dem griechischen Text ist eine französische Übersetzung beigefügt: Manuel II Paléologue, Entretiens avec un Musulman. 7e Controverse. Sources chrétiennes Nr. 115, Paris 1966. Inzwischen hat Karl Förstel im Corpus Islamico-Christianum (Series Graeca. Schriftleitung A. Th. Khoury – R. Glei) eine kommentierte griechisch-deutsche Textausgabe veröffentlicht: Manuel II. Palaiologus, Dialoge mit einem Muslim. 3 Bde. Würzburg – Altenberge 1993 – 1996. Bereits 1966 hatte E. Trapp den griechischen Text – mit einer Einleitung versehen – als Band II. der Wiener byzantinischen Studien herausgegeben. Ich zitiere im folgenden nach Khoury. 730 Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale ausführlicher wiedergegeben sind, als die seines persischen Gesprächspartners.2 Der Dialog erstreckt sich über den ganzen Bereich des von Bibel und Koran umschriebenen Glaubensgefüges und kreist besonders um das Gottesund das Menschenbild, aber auch immer wieder notwendigerweise um das Verhältnis der, wie man sagte, »drei Gesetze« oder »drei Lebensordnungen«: Altes Testament — Neues Testament — Koran. Jetzt, in dieser Vorlesung möchte ich darüber nicht handeln, nur einen — im Aufbau des ganzen Dialogs eher marginalen — Punkt berühren, der mich im Zusammenhang des Themas Glaube und Vernunft fasziniert hat und der mir als Ausgangspunkt für meine Überlegungen zu diesem Thema dient. In der von Professor Khoury herausgegebenen siebten Gesprächsrunde (dia*keni| – Kontroverse) kommt der Kaiser auf das Thema des Djihād, des heiligen Krieges zu sprechen. Der Kaiser wußte sicher, daß in Sure 2, 256 steht: Kein Zwang in Glaubenssachen — es ist wohl eine der frühen Suren aus der Zeit, wie uns ein Teil der Kenner sagt, in der Mohammed selbst noch machtlos und bedroht war. Aber der Kaiser kannte natürlich auch die im Koran niedergelegten — später entstandenen — Bestimmungen über den heiligen Krieg. Ohne sich auf Einzelheiten wie die unterschiedliche Behandlung von »Schriftbesitzern« und »Ungläubigen« einzulassen, wendet er sich in erstaunlich schroffer, für uns unannehmbar schroffer Form ganz einfach mit der zentralen Frage nach dem Verhältnis von Religion und Gewalt überhaupt an seinen Gesprächspartner. Er sagt: »Zeig mir doch, was Mohammed Neues gebracht hat, und da wirst du nur Schlechtes und Inhumanes finden wie dies, daß er vorgeschrieben hat, den Glauben, den er predigte, durch das Schwert zu verbreiten«.3 Der Kaiser begründet, nachdem er so zugeschlagen hat, dann eingehend, warum Glaubensverbreitung durch Gewalt widersinnig ist. Sie steht im Widerspruch zum Wesen Gottes und zum Wesen der Seele. »Gott hat kein Gefallen am Blut«, sagt er, »und nicht vernunftgemäß, nicht » rtm 2 Vgl. über Entstehung und Aufzeichnung des Dialogs Khoury S. 22-29; ausführlich äußern sich dazu auch Förstel und Trapp in ihren Editionen. 3 Controverse VII 2c; bei Khoury S. 142/143; Förstel Bd. I, VII. Dialog 1.5 S. 240/241. Dieses Zitat ist in der muslimischen Welt leider als Ausdruck meiner eigenen Position aufgefaßt worden und hat so begreiflicherweise Empörung hervorgerufen. Ich hoffe, daß der Leser meines Textes sofort erkennen kann, daß dieser Satz nicht meine eigene Haltung dem Koran gegenüber ausdrückt, dem gegenüber ich die Ehrfurcht empfinde, die dem heiligen Buch einer großen Religion gebührt. Bei der Zitation des Texts von Kaiser Manuel II. ging es mir einzig darum, auf den wesentlichen Zusammenhang zwischen Glaube und Vernunft hinzuführen. In diesem Punkt stimme ich Manuel zu, ohne mir deshalb seine Polemik zuzueignen. Acta Benedicti Pp. XVI 731 ko*cx « zu handeln, ist dem Wesen Gottes zuwider. Der Glaube ist Frucht der Seele, nicht des Körpers. Wer also jemanden zum Glauben führen will, braucht die Fähigkeit zur guten Rede und ein rechtes Denken, nicht aber Gewalt und Drohung... Um eine vernünftige Seele zu überzeugen, braucht man nicht seinen Arm, nicht Schlagwerkzeuge noch sonst eines der Mittel, durch die man jemanden mit dem Tod bedrohen kann...«.4 Der entscheidende Satz in dieser Argumentation gegen Bekehrung durch Gewalt lautet: Nicht vernunftgemäß handeln ist dem Wesen Gottes zuwider.5 Der Herausgeber, Theodore Khoury, kommentiert dazu: Für den Kaiser als einen in griechischer Philosophie aufgewachsenen Byzantiner ist dieser Satz evident. Für die moslemische Lehre hingegen ist Gott absolut transzendent. Sein Wille ist an keine unserer Kategorien gebunden und sei es die der Vernünftigkeit.6 Khoury zitiert dazu eine Arbeit des bekannten französischen Islamologen R. Arnaldez, der darauf hinweist, daß Ibn Hazm so weit gehe zu erklären, daß Gott auch nicht durch sein eigenes Wort gehalten sei und daß nichts ihn dazu verpflichte, uns die Wahrheit zu offenbaren. Wenn er es wollte, müsse der Mensch auch Götzendienst treiben.7 An dieser Stelle tut sich ein Scheideweg im Verständnis Gottes und so in der konkreten Verwirklichung von Religion auf, der uns heute ganz unmittelbar herausfordert. Ist es nur griechisch zu glauben, daß vernunftwidrig zu handeln dem Wesen Gottes zuwider ist, oder gilt das immer und in sich selbst? Ich denke, daß an dieser Stelle der tiefe Einklang zwischen dem, was im besten Sinn griechisch ist, und dem auf der Bibel gründenden Gottesglauben sichtbar wird. Den ersten Vers der Genesis, den ersten Vers der Heiligen Schrift überhaupt abwandelnd, hat Johannes den Prolog seines Evangeliums mit dem Wort eröffnet: Im Anfang war der Logos. Dies ist genau das Wort, das der Kaiser gebraucht: Gott handelt » rtm ko*cx «, mit Logos. Logos ist Vernunft und Wort zugleich — eine Vernunft, die schöpferisch ist und sich mitteilen kann, aber eben als Vernunft. Johannes hat uns damit das abschließende Wort des biblischen Gottesbegriffs geschenkt, in 4 Controverse VII 3b-c; bei Khoury S. 144/145; Förstel Bd. I, VII. Dialog 1.6 S. 240-243. Einzig um dieses Gedankens willen habe ich den zwischen Manuel und seinem persischen Gesprächspartner geführten Dialog zitiert. Er gibt das Thema der folgenden Überlegungen vor. 6 Khoury, a.a.O. S. 144 Anm. 1. 7 R. Arnaldez, Grammaire et théologie chez Ibn Hazm de Cordoue. Paris 1956 S. 13; vgl. Khoury S. 144. Daß es in der spätmittelalterlichen Theologie vergleichbare Positionen gibt, wird im weiteren Verlauf dieses Vortrags gezeigt. 5 Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 732 dem alle die oft mühsamen und verschlungenen Wege des biblischen Glaubens an ihr Ziel kommen und ihre Synthese finden. Im Anfang war der Logos, und der Logos ist Gott, so sagt uns der Evangelist. Das Zusammentreffen der biblischen Botschaft und des griechischen Denkens war kein Zufall. Die Vision des heiligen Paulus, dem sich die Wege in Asien verschlossen und der nächtens in einem Gesicht einen Mazedonier sah und ihn rufen hörte: Komm herüber und hilf uns 8 — diese Vision darf als Verdichtung des von innen her nötigen Aufeinanderzugehens zwischen biblischem Glauben und griechischem Fragen gedeutet werden. Dabei war dieses Zugehen längst im Gang. Schon der geheimnisvolle Gottesname vom brennenden Dornbusch, der diesen Gott aus den Göttern mit den vielen Namen herausnimmt und von ihm einfach das »Ich bin«, das Dasein aussagt, ist eine Bestreitung des Mythos, zu der der sokratische Versuch, den Mythos zu überwinden und zu übersteigen, in einer inneren Analogie steht.9 Der am Dornbusch begonnene Prozeß kommt im Innern des Alten Testaments zu einer neuen Reife während des Exils, wo nun der landlos und kultlos gewordene Gott Israels sich als den Gott des Himmels und der Erde verkündet und sich mit einer einfachen, das Dornbusch-Wort weiterführenden Formel vorstellt: »Ich bin’s.« Mit diesem neuen Erkennen Gottes geht eine Art von Aufklärung Hand in Hand, die sich im Spott über die Götter drastisch ausdrückt, die nur Machwerke der Menschen seien.10 So geht der biblische Glaube in der hellenistischen Epoche bei aller Schärfe des Gegensatzes zu den hellenistischen Herrschern, die die Angleichung an die griechische Lebensweise und ihren Götterkult erzwingen wollten, dem Besten des griechischen Denkens von innen her entgegen zu einer gegenseitigen Berührung, wie sie sich dann besonders in der späten Weisheits-Literatur vollzogen hat. Heute wissen wir, daß die in Alexandrien entstandene griechische Übersetzung des Alten Testaments — die Septuaginta — mehr als eine bloße (vielleicht sogar wenig positiv zu beurteilende) Übersetzung des hebräischen Textes, nämlich ein selbständiger Textzeuge und ein eigener wichtiger Schritt der Offenbarungsgeschichte ist, in dem sich diese Begegnung auf eine Weise 8 Apg 16, 6-10. Für die viel diskutierte Auslegung der Dornbuschszene darf ich auf meine »Einführung in das Christentum« (München 1968) S. 84 – 102 verweisen. Ich denke, daß das dort Gesagte trotz der weitergegangenen Diskussion nach wie vor sachgemäß ist. 10 Vgl. Ps 115. 9 Acta Benedicti Pp. XVI 733 realisiert hat, die für die Entstehung des Christentums und seine Verbreitung entscheidende Bedeutung gewann.11 Zutiefst geht es dabei um die Begegnung zwischen Glaube und Vernunft, zwischen rechter Aufklärung und Religion. Manuel II. hat wirklich aus dem inneren Wesen des christlichen Glaubens heraus und zugleich aus dem Wesen des Griechischen, das sich mit dem Glauben verschmolzen hatte, sagen können: Nicht »mit dem Logos« handeln, ist dem Wesen Gottes zuwider. Hier ist der Redlichkeit halber anzumerken, daß sich im Spätmittelalter Tendenzen der Theologie entwickelt haben, die diese Synthese von Griechischem und Christlichem aufsprengen. Gegenüber dem sogenannten augustinischen und thomistischen Intellektualismus beginnt bei Duns Scotus eine Position des Voluntarismus, die schließlich in den weiteren Entwicklungen dahinführte zu sagen, wir kennten von Gott nur seine Voluntas ordinata. Jenseits davon gebe es die Freiheit Gottes, kraft derer er auch das Gegenteil von allem, was er getan hat, hätte machen und tun können. Hier zeichnen sich Positionen ab, die denen von Ibn Hazm durchaus nahekommen können und auf das Bild eines Willkür-Gottes zulaufen könnten, der auch nicht an die Wahrheit und an das Gute gebunden ist. Die Transzendenz und die Andersheit Gottes werden so weit übersteigert, daß auch unsere Vernunft, unser Sinn für das Wahre und Gute kein wirklicher Spiegel Gottes mehr sind, dessen abgründige Möglichkeiten hinter seinen tatsächlichen Entscheiden für uns ewig unzugänglich und verborgen bleiben. Demgegenüber hat der kirchliche Glaube immer daran festgehalten, daß es zwischen Gott und uns, zwischen seinem ewigen Schöpfergeist und unserer geschaffenen Vernunft eine wirkliche Analogie gibt, in der zwar — wie das Vierte Laterankonzil 1215 sagt — die Unähnlichkeiten unendlich größer sind als die Ähnlichkeiten, aber eben doch die Analogie und ihre Sprache nicht aufgehoben werden. Gott wird nicht göttlicher dadurch, daß wir ihn in einen reinen und undurchschaubaren Voluntarismus entrücken, sondern der wahrhaft göttliche Gott ist der Gott, der sich als Logos gezeigt und als Logos liebend für uns gehandelt hat. Gewiß, die Liebe »übersteigt«, wie Paulus sagt, die Erkenntnis und vermag daher mehr wahrzunehmen als das bloße Denken,12 aber sie bleibt doch Liebe des 11 Vgl. A. Schenker, L’Ecriture sainte subsiste en plusieurs formes canoniques simultanées, in: L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Città del Vaticano 2001 S. 178-186. 12 Vgl. Eph 3, 19. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 734 Gottes-Logos, weshalb christlicher Gottesdienst, wie noch einmal Paulus sagt, » kocijg+ kasqei* a «13 ist — Gottesdienst, der im Einklang mit dem ewigen Wort und mit unserer Vernunft steht.14 Dieses hier angedeutete innere Zugehen aufeinander, das sich zwischen biblischem Glauben und griechischem philosophischem Fragen vollzogen hat, ist ein nicht nur religionsgeschichtlich, sondern weltgeschichtlich entscheidender Vorgang, der uns auch heute in die Pflicht nimmt. Wenn man diese Begegnung sieht, ist es nicht verwunderlich, daß das Christentum trotz seines Ursprungs und wichtiger Entfaltungen im Orient schließlich seine geschichtlich entscheidende Prägung in Europa gefunden hat. Wir können auch umgekehrt sagen: Diese Begegnung, zu der dann noch das Erbe Roms hinzutritt, hat Europa geschaffen und bleibt die Grundlage dessen, was man mit Recht Europa nennen kann. Der These, daß das kritisch gereinigte griechische Erbe wesentlich zum christlichen Glauben gehört, steht die Forderung nach der Enthellenisierung des Christentums entgegen, die seit dem Beginn der Neuzeit wachsend das theologische Ringen beherrscht. Wenn man näher zusieht, kann man drei Wellen des Enthellenisierungsprogramms beobachten, die zwar miteinander verbunden, aber in ihren Begründungen und Zielen doch deutlich voneinander verschieden sind.15 Die Enthellenisierung erscheint zuerst mit den Anliegen der Reformation des 16. Jahrhunderts verknüpft. Die Reformatoren sahen sich angesichts der theologischen Schultradition einer ganz von der Philosophie her bestimmten Systematisierung des Glaubens gegenüber, sozusagen einer Fremdbestimmung des Glaubens durch ein nicht aus ihm kommendes Denken. Der Glaube erschien dabei nicht mehr als lebendiges geschichtliches Wort, sondern eingehaust in ein philosophisches System. Das Sola Scriptura sucht demgegenüber die reine Urgestalt des Glaubens, wie er im biblischen Wort ursprünglich da ist. Metaphysik erscheint als eine Vorgabe von anderswoher, von der man den Glauben befreien muß, damit er ganz wieder er selber sein könne. In einer 13 Vgl. Röm 12, 1. Ausführlicher habe ich mich dazu geäußert in meinem Buch »Der Geist der Liturgie. Eine Einführung.« Freiburg 2000 S. 38-42. 15 Aus der umfänglichen Literatur zum Thema Enthellenisierung möchte ich besonders nennen A. Grillmeier, Hellenisierung – Judaisierung des Christentums als Deuteprinzipien der Geschichte des kirchlichen Dogmas, in: ders., Mit ihm und in ihm. Christologische Forschungen und Perspektiven. Freiburg 1975 S. 423-488. 14 Acta Benedicti Pp. XVI 735 für die Reformatoren nicht vorhersehbaren Radikalität hat Kant mit seiner Aussage, er habe das Denken beiseite schaffen müssen, um dem Glauben Platz zu machen, aus diesem Programm heraus gehandelt. Er hat dabei den Glauben ausschließlich in der praktischen Vernunft verankert und ihm den Zugang zum Ganzen der Wirklichkeit abgesprochen. Die liberale Theologie des 19. und 20. Jahrhunderts brachte eine zweite Welle im Programm der Enthellenisierung mit sich, für die Adolf von Harnack als herausragender Repräsentant steht. In der Zeit, als ich studierte, wie in den frühen Jahren meines akademischen Wirkens war dieses Programm auch in der katholischen Theologie kräftig am Werk. Pascals Unterscheidung zwischen dem Gott der Philosophen und dem Gott Abrahams, Isaaks und Jakobs diente als Ausgangspunkt dafür. In meiner Bonner Antrittsvorlesung von 1959 habe ich mich damit auseinanderzusetzen versucht,16 und möchte dies alles hier nicht neu aufnehmen. Wohl aber möchte ich wenigstens in aller Kürze versuchen, das unterscheidend Neue dieser zweiten Enthellenisierungswelle gegenüber der ersten herauszustellen. Als Kerngedanke erscheint bei Harnack die Rückkehr zum einfachen Menschen Jesus und zu seiner einfachen Botschaft, die allen Theologisierungen und eben auch Hellenisierungen voraus liege: Diese einfache Botschaft stelle die wirkliche Höhe der religiösen Entwicklung der Menschheit dar. Jesus habe den Kult zugunsten der Moral verabschiedet. Er wird im letzten als Vater einer menschenfreundlichen moralischen Botschaft dargestellt. Dabei geht es Harnack im Grunde darum, das Christentum wieder mit der modernen Vernunft in Einklang zu bringen, eben indem man es von scheinbar philosophischen und theologischen Elementen wie etwa dem Glauben an die Gottheit Christi und die Dreieinheit Gottes befreie. Insofern ordnet die historisch-kritische Auslegung des Neuen Testaments, wie er sie sah, die Theologie wieder neu in den Kosmos der Universität ein: Theologie ist für Harnack wesentlich historisch und so streng wissenschaftlich. Was sie auf dem Weg der Kritik über Jesus ermittelt, ist sozusagen Ausdruck der praktischen Vernunft und damit auch im Ganzen der Universität vertretbar. Im Hintergrund steht die neuzeitliche Selbstbeschränkung der Vernunft, wie sie in Kants Kritiken klassischen Ausdruck gefun16 Neu herausgegeben und kommentiert von Heino Sonnemans (Hrsg.): Joseph Ratzinger – Benedikt XVI., Der Gott des Glaubens und der Gott der Philosophen. Ein Beitrag zum Problem der theologia naturalis. Johannes-Verlag Leutesdorf, 2. ergänzte Auflage 2005. 736 Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale den hatte, inzwischen aber vom naturwissenschaftlichen Denken weiter radikalisiert wurde. Diese moderne Auffassung der Vernunft beruht auf einer durch den technischen Erfolg bestätigten Synthese zwischen Platonismus (Cartesianismus) und Empirismus, um es verkürzt zu sagen. Auf der einen Seite wird die mathematische Struktur der Materie, sozusagen ihre innere Rationalität vorausgesetzt, die es möglich macht, sie in ihrer Wirkform zu verstehen und zu gebrauchen: Diese Grundvoraussetzung ist sozusagen das platonische Element im modernen Naturverständnis. Auf der anderen Seite geht es um die Funktionalisierbarkeit der Natur für unsere Zwecke, wobei die Möglichkeit der Verifizierung oder Falsifizierung im Experiment erst die entscheidende Gewißheit liefert. Das Gewicht zwischen den beiden Polen kann je nachdem mehr auf der einen oder der anderen Seite liegen. Ein so streng positivistischer Denker wie J. Monod hat sich als überzeugten Platoniker bezeichnet. Dies bringt zwei für unsere Frage entscheidende Grundorientierungen mit sich. Nur die im Zusammenspiel von Mathematik und Empirie sich ergebende Form von Gewißheit gestattet es, von Wissenschaftlichkeit zu sprechen. Was Wissenschaft sein will, muß sich diesem Maßstab stellen. So versuchten dann auch die auf die menschlichen Dinge bezogenen Wissenschaften wie Geschichte, Psychologie, Soziologie, Philosophie, sich diesem Kanon von Wissenschaftlichkeit anzunähern. Wichtig für unsere Überlegungen ist aber noch, daß die Methode als solche die Gottesfrage ausschließt und sie als unwissenschaftliche oder vorwissenschaftliche Frage erscheinen läßt. Damit aber stehen wir vor einer Verkürzung des Radius von Wissenschaft und Vernunft, die in Frage gestellt werden muß. Darauf werde ich zurückkommen. Einstweilen bleibt festzustellen, daß bei einem von dieser Sichtweise her bestimmten Versuch, Theologie »wissenschaftlich« zu erhalten, vom Christentum nur ein armseliges Fragmentstück übrigbleibt. Aber wir müssen mehr sagen: Wenn dies allein die ganze Wissenschaft ist, dann wird der Mensch selbst dabei verkürzt. Denn die eigentlich menschlichen Fragen, die nach unserem Woher und Wohin, die Fragen der Religion und des Ethos können dann nicht im Raum der gemeinsamen, von der so verstandenen »Wissenschaft« umschriebenen Vernunft Platz finden und müssen ins Subjektive verlegt werden. Das Subjekt entscheidet mit seinen Erfahrungen, was ihm religiös tragbar erscheint, und das subjektive »Gewissen« wird zur letztlich einzigen ethischen In- Acta Benedicti Pp. XVI 737 stanz. So aber verlieren Ethos und Religion ihre gemeinschaftsbildende Kraft und verfallen der Beliebigkeit. Dieser Zustand ist für die Menschheit gefährlich: Wir sehen es an den uns bedrohenden Pathologien der Religion und der Vernunft, die notwendig ausbrechen müssen, wo die Vernunft so verengt wird, daß ihr die Fragen der Religion und des Ethos nicht mehr zugehören. Was an ethischen Versuchen von den Regeln der Evolution oder von Psychologie und Soziologie her bleibt, reicht einfach nicht aus. Bevor ich zu den Schlußfolgerungen komme, auf die ich mit alledem hinaus will, muß ich noch kurz die dritte Enthellenisierungswelle andeuten, die zurzeit umgeht. Angesichts der Begegnung mit der Vielheit der Kulturen sagt man heute gern, die Synthese mit dem Griechentum, die sich in der alten Kirche vollzogen habe, sei eine erste Inkulturation des Christlichen gewesen, auf die man die anderen Kulturen nicht festlegen dürfe. Ihr Recht müsse es sein, hinter diese Inkulturation zurückzugehen auf die einfache Botschaft des Neuen Testaments, um sie in ihren Räumen jeweils neu zu inkulturieren. Diese These ist nicht einfach falsch, aber doch vergröbert und ungenau. Denn das Neue Testament ist griechisch geschrieben und trägt in sich selber die Berührung mit dem griechischen Geist, die in der vorangegangenen Entwicklung des Alten Testaments gereift war. Gewiß gibt es Schichten im Werdeprozeß der alten Kirche, die nicht in alle Kulturen eingehen müssen. Aber die Grundentscheidungen, die eben den Zusammenhang des Glaubens mit dem Suchen der menschlichen Vernunft betreffen, die gehören zu diesem Glauben selbst und sind seine ihm gemäße Entfaltung. Damit komme ich zum Schluß. Die eben in ganz groben Zügen versuchte Selbstkritik der modernen Vernunft schließt ganz und gar nicht die Auffassung ein, man müsse nun wieder hinter die Aufklärung zurückgehen und die Einsichten der Moderne verabschieden. Das Große der modernen Geistesentwicklung wird ungeschmälert anerkannt: Wir alle sind dankbar für die großen Möglichkeiten, die sie dem Menschen erschlossen hat und für die Fortschritte an Menschlichkeit, die uns geschenkt wurden. Das Ethos der Wissenschaftlichkeit — Sie haben es angedeutet Magnifizenz — ist im übrigen Wille zum Gehorsam gegenüber der Wahrheit und insofern Ausdruck einer Grundhaltung, die zu den wesentlichen Entscheiden des Christlichen gehört. Nicht Rücknahme, nicht negative Kritik ist gemeint, sondern um Ausweitung unseres Vernunftbegriffs und -gebrauchs geht es. 738 Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale Denn bei aller Freude über die neuen Möglichkeiten des Menschen sehen wir auch die Bedrohungen, die aus diesen Möglichkeiten aufsteigen, und müssen uns fragen, wie wir ihrer Herr werden können. Wir können es nur, wenn Vernunft und Glaube auf neue Weise zueinanderfinden; wenn wir die selbstverfügte Beschränkung der Vernunft auf das im Experiment Falsifizierbare überwinden und der Vernunft ihre ganze Weite wieder eröffnen. In diesem Sinn gehört Theologie nicht nur als historische und humanwissenschaftliche Disziplin, sondern als eigentliche Theologie, als Frage nach der Vernunft des Glaubens an die Universität und in ihren weiten Dialog der Wissenschaften hinein. Nur so werden wir auch zum wirklichen Dialog der Kulturen und Religionen fähig, dessen wir so dringend bedürfen. In der westlichen Welt herrscht weithin die Meinung, allein die positivistische Vernunft und die ihr zugehörigen Formen der Philosophie seien universal. Aber von den tief religiösen Kulturen der Welt wird gerade dieser Ausschluß des Göttlichen aus der Universalität der Vernunft als Verstoß gegen ihre innersten Überzeugungen angesehen. Eine Vernunft, die dem Göttlichen gegenüber taub ist und Religion in den Bereich der Subkulturen abdrängt, ist unfähig zum Dialog der Kulturen. Dabei trägt, wie ich zu zeigen versuchte, die moderne naturwissenschaftliche Vernunft mit dem ihr innewohnenden platonischen Element eine Frage in sich, die über sie und ihre methodischen Möglichkeiten hinausweist. Sie selber muß die rationale Struktur der Materie wie die Korrespondenz zwischen unserem Geist und den in der Natur waltenden rationalen Strukturen ganz einfach als Gegebenheit annehmen, auf der ihr methodischer Weg beruht. Aber die Frage, warum dies so ist, die besteht doch und muß von der Naturwissenschaft weitergegeben werden an andere Ebenen und Weisen des Denkens — an Philosophie und Theologie. Für die Philosophie und in anderer Weise für die Theologie ist das Hören auf die großen Erfahrungen und Einsichten der religiösen Traditionen der Menschheit, besonders aber des christlichen Glaubens, eine Erkenntnisquelle, der sich zu verweigern eine unzulässige Verengung unseres Hörens und Antwortens wäre. Mir kommt da ein Wort des Sokrates an Phaidon in den Sinn. In den vorangehenden Gesprächen hatte man viele falsche philosophische Meinungen berührt, und nun sagt Sokrates: Es wäre wohl zu verstehen, wenn einer aus Ärger über so viel Falsches sein übriges Leben lang alle Reden über das Sein haßte und schmähte. Aber auf diese Weise Acta Benedicti Pp. XVI 739 würde er der Wahrheit des Seienden verlustig gehen und einen sehr großen Schaden erleiden.17 Der Westen ist seit langem von dieser Abneigung gegen die grundlegenden Fragen seiner Vernunft bedroht und könnte damit einen großen Schaden erleiden. Mut zur Weite der Vernunft, nicht Absage an ihre Größe — das ist das Programm, mit dem eine dem biblischen Glauben verpflichtete Theologie in den Disput der Gegenwart eintritt. »Nicht vernunftgemäß, nicht mit dem Logos handeln ist dem Wesen Gottes zuwider«, hat Manuel II. von seinem christlichen Gottesbild her zu seinem persischen Gesprächspartner gesagt. In diesen großen Logos, in diese Weite der Vernunft laden wir beim Dialog der Kulturen unsere Gesprächspartner ein. Sie selber immer wieder zu finden, ist die große Aufgabe der Universität. II Sermo habitus in oecumenica Vesperarum celebratione apud cathedrale templum Ratisbonense.* Liebe Brüder und Schwestern in Christus! Wir sind versammelt, Orthodoxe, Katholiken und evangelische Christen — und jüdische Freunde sind mit uns —, wir sind versammelt, um gemeinsam das Abendlob Gottes zu singen, dessen Herzstück die Psalmen sind, in denen sich Alter und Neuer Bund vereinigen, unser Gebet sich mit dem glaubenden und hoffenden Israel verbindet. Dies ist eine Stunde der Dankbarkeit dafür, daß wir so miteinander die Psalmen beten dürfen und aus der Zuwendung zum Herrn hin zugleich eins werden miteinander. Ganz herzlich möchte ich zunächst die Teilnehmer an dieser Vesper begrüßen, die aus der orthodoxen Kirche kommen. Ich betrachte es immer als ein großes Geschenk der Vorsehung, daß ich als Professor in Bonn in zwei jungen Archimandriten, den späteren Metropoliten Stylianos Harkianakis und Damaskinos Papandreou, die orthodoxe Kirche sozusagen per90 c-d. Vgl. zu diesem Text R. Guardini, Der Tod des Sokrates. Mainz – Paderborn 19875 S. 218-221. —————— 17 * Die 12 Septembris 2006. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 740 sönlich, in Personen kennen- und so liebenlernen durfte. In Regensburg kamen dank der Initiativen von Bischof Graber neue Begegnungen hinzu: bei den Symposien auf dem Spindlhof und durch die Stipendiaten, die hier studiert haben. Ich freue mich, manche altvertraute Gesichter wiedersehen zu dürfen und alte Freundschaften neu belebt zu finden. In wenigen Tagen wird in Belgrad der theologische Dialog wieder aufgenommen werden über das Grundthema der Koinonia, der Gemeinschaft — in den zwei Dimensionen, die uns der erste Johannes-Brief gleich zu Beginn im ersten Kapitel benennt: Unsere Koinonia ist zunächst Gemeinschaft mit dem Vater und seinem Sohn Jesus Christus im Heiligen Geist; sie ist die vom Herrn durch seine Menschwerdung und die Geistsendung ermöglichte Gemeinschaft mit dem dreifaltigen Gott selbst. Diese Gottesgemeinschaft schafft dann auch die Koinonia untereinander, als Teilhabe am Glauben der Apostel und so als Gemeinschaft im Glauben, die sich in der Eucharistie verleiblicht und über alle Grenzen hin die eine Kirche baut.1 Ich hoffe und bete, daß diese Gespräche fruchtbar sind und daß die uns verbindende Gemeinschaft mit dem lebendigen Gott, die Gemeinschaft in dem von den Aposteln überlieferten Glauben sich vertieft und zu jener vollen Einheit reift, an der die Welt erkennen kann, daß Jesus Christus wahrhaft der Gesandte Gottes, Gottes Sohn ist, der Heiland der Welt.2 »Damit die Welt glaube«, müssen wir eins sein: Der Ernst dieses Auftrags muß unseren Dialog beseelen. Ganz herzlich begrüße ich auch die Freunde aus den verschiedenen Traditionen der Reformation. Auch da werden in mir viele Erinnerungen wach — Erinnerungen an Freunde aus dem Jäger-Stählin-Kreis, die heimgegangen sind; mit diesen Erinnerungen verbindet sich die Dankbarkeit für die Begegnungen dieser Stunde. Ich denke natürlich ganz besonders an das Ringen um den Rechtfertigungskonsens mit all seinen Phasen bis hin zu der denkwürdigen Begegnung mit dem heimgegangenen Bischof Hanselmann hier in Regensburg, die wesentlich dazu beitragen durfte, zur gemeinsamen Antwort zu finden. Ich freue mich, daß inzwischen auch der »Weltrat der methodistischen Kirchen« sich diesem Konsens angeschlossen hat. Der Rechtfertigungskonsens bleibt eine große und — wie ich meine — noch nicht recht eingelöste Verpflichtung für uns: Rechtferti1 2 Vgl. 1 Joh 1, 3. Vgl. Joh 17, 21. Acta Benedicti Pp. XVI 741 gung ist ein wesentliches Thema in der Theologie, aber im Leben der Gläubigen heute kaum anwesend, wie mir scheint. Auch wenn durch die dramatischen Ereignisse der Gegenwart das Thema der Vergebung untereinander wieder seine volle Dringlichkeit zeigt — daß wir zuallererst die Vergebung von Gott her, die Gerechtmachung durch ihn brauchen, das steht kaum im Bewußtsein. Daß wir Gott gegenüber ernstlich in Schulden sind, daß Sünde eine Realität ist, die nur von Gott her überwunden werden kann: das ist dem modernen Bewußtsein weithin fremd geworden — und wir alle sind ja irgendwie »modern«. Im letzten steht eine Abschwächung unseres Gottesverhältnisses hinter diesem Verblassen des Themas der Rechtfertigung und der Vergebung der Sünden. So wird es wohl unsere allererste Aufgabe sein, den lebendigen Gott wieder in unserem Leben und in unserer Zeit und Gesellschaft neu zu entdecken. Hören wir nun mit dieser Absicht dem zu, was der heilige Johannes uns eben in der Lesung sagen wollte. Ich möchte drei Aussagen dieses vielschichtigen und reichen Textes besonders unterstreichen. Das Zentralthema des ganzen Briefes erscheint im Vers 15: »Wer bekennt, daß Jesus der Sohn Gottes ist, in dem bleibt Gott, und er bleibt in Gott.« Johannes stellt hier noch einmal, wie zuvor schon in den Versen 2 und 3 des vierten Kapitels, das Bekenntnis, die Confessio heraus, die uns überhaupt als Christen unterscheidet: den Glauben daran, daß Jesus der im Fleisch gekommene Sohn Gottes ist. »Niemand hat Gott je gesehen. Der einzige, der Gott ist und am Herzen des Vaters ruht, er hat Kunde gebracht«, heißt es am Ende des Prologs zum vierten Evangelium.3 Wer Gott ist, wissen wir durch Jesus Christus: den einzigen, der Gott ist. In die Berührung mit Gott kommen wir durch ihn. In der Zeit der multireligiösen Begegnungen sind wir leicht versucht, dieses zentrale Bekenntnis etwas abzuschwächen oder gar zu verstecken. Aber damit dienen wir der Begegnung nicht und nicht dem Dialog. Damit machen wir Gott nur unzugänglicher, für die anderen und für uns selbst. Es ist wichtig, daß wir unser Gottesbild ganz und nicht nur fragmentiert zur Sprache bringen. Damit wir es können, muß unsere eigene Gemeinschaft mit Christus, unsere Liebe zu ihm wachsen und tiefer werden. In diesem gemeinsamen Bekenntnis und in dieser gemeinsamen Aufgabe gibt es keine Trennung zwischen uns. Daß dieser gemeinsame Grund immer stärker werde, darum wollen wir beten. 3 Joh 1, 18. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 742 Damit sind wir schon mitten in dem zweiten Punkt, den ich ansprechen wollte. Er kommt im Vers 14 zur Sprache, wo es heißt: »Wir haben gesehen und bezeugen, daß der Vater den Sohn gesandt hat als den Retter der Welt.« Das Zentralwort dieses Satzes heißt: laqstqot&lem — wir bezeugen, wir sind Zeugen. Das Bekenntnis muß Zeugnis werden. In dem zugrundeliegenden Wort la*qst| klingt auf, daß der Zeuge Jesu Christi mit seiner ganzen Existenz, mit Leben und Sterben für sein Zeugnis eintritt. Der Verfasser des Briefes sagt von sich: »Wir haben gesehen.« Weil er gesehen hat, kann er Zeuge sein. Er setzt aber voraus, daß auch wir — die nachfolgenden Generationen — sehend zu werden vermögen und daß auch wir als Sehende Zeugnis ablegen können. Bitten wir den Herrn, daß er uns sehend macht. Helfen wir uns gegenseitig zum Sehen, damit wir auch die Menschen unserer Zeit sehend machen können und daß sie durch die ganze selbstgemachte Welt hindurch Gott wieder erkennen können; durch alle historischen Barrieren hindurch Jesus wieder wahrnehmen dürfen, den von Gott gesandten Sohn, in dem wir den Vater sehen. Im Vers 9 heißt es, daß Gott den Sohn in die Welt gesandt hat, damit wir leben. Können wir nicht heute sehen, daß erst durch die Begegnung mit Jesus Christus das Leben wirklich Leben wird? Zeuge für Jesus Christus sein bedeutet vor allem auch: Zeuge für eine Weise des Lebens sein. In einer Welt voller Verwirrung müssen wir wieder Zeugnis geben von den Maßstäben, die Leben zu Leben machen. Dieser großen gemeinsamen Aufgabe aller Glaubenden müssen wir uns mit großer Entschiedenheit stellen: Es ist die Verantwortung der Christen in dieser Stunde, jene Maßstäbe rechten Lebens sichtbar zu machen, die uns in Jesus Christus aufgegangen sind, der alle Worte der Schrift in seinem Weg vereinigt hat: »Auf ihn sollt ihr hören.«4 Damit sind wir bei dem dritten Stichwort angekommen, das ich aus dieser Lesung hervorheben wollte: Agape — Liebe. Dies ist Leitwort des ganzen Briefes und besonders des Abschnitts, den wir eben gehört haben. Agape, Liebe, wie Johannes sie uns lehrt, ist nichts Sentimentales und nichts Verstiegenes; sie ist ganz nüchtern und realistisch. Ein wenig darüber habe ich in meiner Enzyklika »Deus caritas est« zu sagen versucht. Die Agape, die Liebe ist wirklich die Summe von Gesetz und Propheten. Alles ist in ihr »eingefaltet«, muß aber im Alltag immer neu entfaltet werden. Im Vers 16 unseres Textes findet sich das wundervolle Wort: »Wir haben der 4 Mk 9, 7. Acta Benedicti Pp. XVI 743 Liebe geglaubt.« Ja, der Liebe kann der Mensch glauben. Bezeugen wir unseren Glauben so, daß er als Kraft der Liebe erscheint, »damit die Welt glaube.«5 Amen. III Summus Pontifex convenit presbyteros et diaconos permanentes in cathedrali templo Frisingensi.* Liebe Mitbrüder im bischöflichen und priesterlichen Dienst, liebe Schwestern und Brüder! Dies ist für mich ein Augenblick der Freude und einer großen Dankbarkeit — Dankbarkeit für alles, was ich auf diesem Pastoralbesuch in Bayern erleben und empfangen durfte. So viel Herzlichkeit, so viel Glaube, so viel Freude an Gott, daß es mich tief getroffen hat und als Quelle neuer Kraft mit mir geht. Dankbarkeit dann besonders dafür, daß ich nun am Ende noch in den Freisinger Dom zurückkehren durfte und daß ich ihn in seiner leuchtenden neuen Gestalt sehen darf. Dank Kardinal Wetter, Dank den anderen beiden bayerischen Bischöfen, Dank aber allen, die mitgearbeitet haben, Dank der Vorsehung, die die Renovierung des Domes ermöglicht hat, der nun in dieser neuen Schönheit dasteht! Jetzt, da ich in diesem Dom stehe, steigen so viele Erinnerungen in mir wieder auf, auch wenn ich die alten Weggefährten sehen darf, und die jungen Priester, die die Botschaft, die Fakkel des Glaubens, weitertragen. Es tauchen die Erinnerungen daran auf — Kardinal Wetter hat es eben schon angedeutet —, wie ich hier bei der Priesterweihe auf dem Boden hingestreckt lag und, gleichsam eingehüllt in die Allerheiligenlitanei, in die Bitte aller Heiligen, wußte, daß wir auf diesem Weg nicht allein sind, sondern daß die große Schar der Heiligen mit uns geht und daß die lebendigen Heiligen, die Gläubigen von heute und von morgen, uns mittragen und begleiten. Dann der Augenblick der Handauflegung ... und schließlich, als Kardinal Faulhaber uns das Wort Jesu zurief: »Iam non dico 5 Joh 17, 21. —————— * Die 14 Septembris 2006. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 744 vos servos, sed amicos« – »Ich nenne euch nicht mehr Knechte, sondern Freunde«, da habe ich Priesterweihe erfahren als Einweihung in die Gemeinschaft der Freunde Jesu, die gerufen sind, mit ihm zu sein und seine Botschaft zu verkünden. Erinnerung dann daran, daß ich hier selbst Priester und Diakone weihen durfte, die nun im Dienst des Evangeliums stehen und die Botschaft durch viele Jahre hindurch — und es sind jetzt schon Jahrzehnte! — weitergetragen haben und immer noch weitertragen. Und dann denke ich natürlich an die Korbinian-Prozessionen. Damals war es noch so, daß man den Schrein öffnete. Und da der Bischof hinter dem Schrein stand, konnte ich direkt auf den Schädel des heiligen Korbinian schauen und mich in der Prozession der Jahrhunderte sehen, die den Weg des Glaubens geht — sehen, daß wir in dieser großen »Prozession aller Zeiten« mitgehen dürfen und sie fortführen in die Zukunft hinein, was ganz deutlich wurde, wenn der Weg durch den Kreuzgang und an den vielen dort versammelten Kindern vorbeiführte, denen ich das Segenskreuz aufdrücken durfte. In diesem Augenblick spüren wir es wieder, daß wir in der großen Prozession, in der Pilgerschaft des Evangeliums stehen, daß wir zugleich Pilger und Pilgerführer sein dürfen und daß wir denen nachgehen, die Christus nachgegangen sind, mit ihnen ihm selbst nachgehen und so ins Licht hinein gehen. Jetzt sollte ich zur eigentlichen Predigt kommen, und da möchte ich nur auf zwei Punkte näher eingehen. Der eine bezieht sich auf das eben vorgetragene Evangelium, das wir alle so oft gehört und ausgelegt und in unserem Herzen betrachtet haben. »Die Ernte ist groß«, sagt der Herr. Und wenn er sagt: »...ist groß«, dann meint er es nicht nur für jenen Augenblick und für die Wege Palästinas, über die er in seinem Erdenleben pilgerte, dann gilt das auch für heute. Das heißt: In den Herzen der Menschen wächst Ernte. Das heißt, noch einmal: In ihnen ist das Warten auf Gott da. Das Warten auf eine Weisung, die Licht ist, die den Weg zeigt. Das Warten auf ein Wort, das mehr ist als Wort. Das Hoffen, das Warten auf die Liebe, die über den Augenblick hinaus uns ewig trägt und empfängt. Die Ernte ist groß und wartet in allen Generationen auf Erntearbeiter. Und in unterschiedlicher Weise gilt in allen Generationen auch immer das andere Wort: »Der Arbeiter sind wenige«. »Bittet den Herrn der Ernte, daß er Arbeiter sendet!« Das bedeutet: Die Ernte ist da, aber Gott will sich der Menschen bedienen, damit sie einge- Acta Benedicti Pp. XVI 745 bracht werde. Gott braucht Menschen. Er braucht solche, die sagen: Ja, ich bin bereit, dein Erntearbeiter zu werden, ich bin bereit zu helfen, daß diese Ernte, die in den Menschen reift, wirklich in die Scheunen der Ewigkeit eingehen und Gottes ewige Gemeinschaft der Freude und der Liebe werden kann. »Bittet den Herrn der Ernte!« Das will auch sagen: Wir können Berufungen nicht einfach »machen«, sie müssen von Gott kommen. Wir können nicht, wie vielleicht in anderen Berufen, durch gezieltes Management, entsprechende Strategien sozusagen, einfach Leute rekrutieren. Die Berufung muß immer den Weg vom Herzen Gottes aus zum Herzen des Menschen finden. Und trotzdem: Gerade, damit sie im Herzen der Menschen ankommen kann, ist auch unser Mittun gefordert. Den Herrn der Ernte darum bitten, das bedeutet gewiß zu allererst, daß wir darum beten, daß wir an seinem Herzen rütteln und sagen: »Tu es doch! Wecke die Menschen auf! Entzünde in ihnen die Begeisterung für das Evangelium und die Freude daran! Laß sie erkennen, daß es der Schatz über allen Schätzen ist und daß, wer es entdeckt hat, es weitergeben muß!« Wir rütteln am Herzen Gottes. Aber Gott bitten geschieht eben nicht nur in den Gebetsworten, sondern darin, daß aus Wort Tun wird, daß aus unserem betenden Herzen dann der Funke der Freude an Gott, der Freude am Evangelium, der Bereitschaft zum »Ja-sagen« in die anderen Herzen überspringt. Als betende Menschen, als von seinem Licht Erfüllte, kommen wir zu den anderen, ziehen sie in unser Gebet und so in die Gegenwart Gottes hinein, der dann das Seine tut. In diesem Sinn wollen wir immer neu den Herrn der Ernte bitten, an seinem Herzen rütteln und mit ihm in unserem Gebet auch die Herzen der Menschen anrühren, daß Gott nach seinem Willen darin das »Ja« reifen lasse, die Bereitschaft; und dann die Beständigkeit, durch all die Wirrnisse der Zeit, durch die Hitze des Tages und auch durch das Dunkel der Nacht treu in seinem Dienst zu bleiben und von ihm her immer wieder zu erkennen — auch wenn es mühselig ist —, daß diese Mühsal schön ist, daß sie nützlich ist, weil sie zum Eigentlichen hilft, daß nämlich Menschen das empfangen, worauf sie bauen: Gottes Licht und Gottes Liebe. Der zweite Punkt, den ich behandeln möchte, ist eine ganz praktische Frage. Die Zahl der Priester ist geringer geworden, auch wenn wir in diesem Augenblick sehen dürfen, daß es uns wirklich gibt, daß auch heute junge und alte Priester da sind, und daß junge Menschen vorhanden sind, die sich auf den Weg zum Priestertum machen. Aber die Lasten sind schwerer geworden: Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 746 Zwei, drei, vier Pfarreien zusammen zu betreuen und dies mit all den neuen Aufgaben, die hinzugekommen sind, das kann entmutigend sein. Immer wieder wird die Frage an mich herangetragen, jeder einzelne stellt sie sich, stellt sie seinen Mitbrüdern: Wie sollen wir denn das machen? Ist das nicht ein Beruf, der uns ausbrennt, in dem wir am Ende eben keine Freude mehr haben können, weil wir sehen, daß es rundherum nicht reicht, was wir auch tun mögen? All das überfordert uns! Was soll man dazu sagen? Nun, ich kann natürlich keine Patentrezepte geben, aber ich möchte doch ein paar Grundregeln vermitteln. Die erste nehme ich aus dem Philipperbrief,1 wo der heilige Paulus allen — und natürlich ganz besonders denen, die im Erntefeld Gottes arbeiten — sagt, daß wir »die Gesinnung Jesu Christi« haben sollen. Seine Gesinnung war es, daß er es angesichts des Menschenschicksals in seiner Herrlichkeit gleichsam nicht mehr aushielt, sondern heruntersteigen und das Unglaubliche, die ganze Armseligkeit eines menschlichen Lebens annehmen mußte bis in die Stunde des Kreuzesleidens hinein. Das ist die Gesinnung Jesu Christi: sich gedrängt fühlen, zu den Menschen das Licht des Vaters zu bringen, ihnen zu helfen, damit Reich Gottes aus ihnen und in ihnen werde. Und die Gesinnung Jesu Christi ist es zugleich, daß er immer zutiefst in der Gemeinschaft mit dem Vater verwurzelt, in sie eingesenkt ist. Wir sehen es sozusagen äußerlich daran, daß die Evangelisten uns immer wieder erzählen, daß er sich auf den Berg zurückzieht, er allein, um zu beten. Sein Wirken kommt aus dem Eingesenktsein in den Vater: Gerade dieses Eingesenktsein in den Vater bedeutet, daß er herausgehen und durch alle Dörfer und Städte ziehen muß, um Gottes Reich, das heißt seine Gegenwart, sein »Dasein« mitten unter uns zu verkündigen, damit es in uns Gegenwart werde und durch uns die Welt verwandle, damit sein Wille geschehe, wie im Himmel so auf Erden, und der Himmel auf die Erde komme. Diese beiden Aspekte gehören zur Gesinnung Jesu Christi: Einerseits Gott von innen her kennen, Christus von innen her kennen, mit ihm beieinander sein. Nur wenn das gegeben ist, entdecken wir den »Schatz« wirklich. Und dann müssen wir andererseits auch zu den Menschen gehen, dann können wir ihn nicht für uns behalten und müssen ihn weitergeben. 1 Vgl. 2, 5-8. Acta Benedicti Pp. XVI 747 Diese Grundregel der Gesinnung Jesu Christi mit ihren beiden Seiten würde ich dann ins Praktische noch einmal umsetzen und sagen: Es muß das Miteinander von Eifer und Demut, das heißt der Anerkennung der eigenen Grenzen, geben. Einerseits der Eifer: Wenn wir Christus wirklich immer neu begegnen, können wir ihn nicht für uns behalten. Dann drängt es uns, zu den Armen, zu den Alten, zu den Schwachen und ebenso auch zu den Kindern und zu den Jugendlichen, zu den Menschen auf der Höhe des Lebens zu gehen, dann drängt es uns, »Evangelisten«, Apostel Jesu Christi zu sein. Aber dieser Eifer, damit er nicht leer wird und uns zerstört, muß sich mit der Demut, der Bescheidung, mit der Annahme unserer Grenzen verbinden. So vieles müsste getan werden — ich sehe, ich kann es nicht. Das gilt für die Pfarrer — ich ahne wenigstens, wie sehr — das gilt auch für den Papst; der sollte so viel tun! Und meine Kräfte reichen einfach nicht dafür aus. So muß ich lernen, das zu tun, was ich kann, und das andere Gott und den Mitarbeitern zu überlassen und zu sagen: »Am Ende mußt es ja Du machen, denn die Kirche ist Deine Kirche. Und Du gibst mir nur so viel Kraft, wie ich eben habe. Sie sei Dir geschenkt, denn sie kommt von Dir, aber das andere überlasse ich eben Dir.« Ich glaube, diese Demut, das anzunehmen — »Hier hört meine Kraft auf, ich überlasse es Dir, Herr, daß Du das andere tust« — diese Demut ist entscheidend. Und dann darauf vertrauen: Er wird mir auch Mitarbeiter schenken, die weiterhelfen und die tun, was ich nicht kann. Und noch einmal, auf eine dritte Ebene »übersetzt«, heißt dieses Miteinander von Eifer und Bescheidung dann auch das Miteinander von Dienst in all seinen Dimensionen und von Innerlichkeit. Wir können den anderen nur dienen, wir können nur geben, wenn wir auch selbst empfangen, wenn wir selber nicht leer werden. Und darum gibt uns die Kirche gleichsam die Freiräume vor, die einerseits Räume dieses neuen inneren »Aus- und Einatmens« und andererseits zugleich Mittelpunkt und Quellgründe des Dienens sind. Da ist zunächst die tägliche Feier der Heiligen Messe: Vollziehen wir sie nicht wie etwas, das eben »dran ist« und das ich halt »machen muß«, sondern feiern wir sie von innen her! Geben wir uns in die Worte, in die Handlungen, in das Geschehen hinein, das da wahr ist! Wenn wir die Messe betend feiern, wenn wir dieses »Dies ist mein Leib« wirklich aus der Gemeinschaft mit Jesus Christus heraus sprechen, der uns die Hände aufgelegt hat und uns ermächtigt hat, mit diesem seinem Ich zu sprechen, wenn wir glaubend und betend 748 Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale von innen her Eucharistie begehen, dann ist sie nicht eine äußere Pflicht, dann ist die »ars celebrandi« von selbst da, die eben darin besteht, es vom Herrn her und mit ihm und so recht für die Menschen zu tun. Dann werden wir dabei selbst immer neu beschenkt und bereichert, und geben zugleich das, was mehr ist als unser Eigenes, nämlich die Gegenwart des Herrn, an die Menschen weiter. Der andere Freiraum, den uns die Kirche sozusagen auflegt und dadurch auch befreiend vorgibt, ist das Stundengebet. Versuchen wir, es wirklich mitzubeten, mitzubeten mit dem Israel des Alten und des Neuen Bundes, mitzubeten mit den Betern aller Jahrhunderte, mitzubeten mit Jesus Christus als dem tiefsten Ich, dem tiefsten Subjekt dieser Gebete. Und indem wir so beten, nehmen wir auch die anderen Menschen, die dafür nicht Zeit oder Kraft oder Fähigkeit haben, ins Beten hinein. Wir selber als betende Menschen beten stellvertretend für die anderen und tun damit einen pastoralen Dienst ersten Grades. Dies ist nicht ein Rückzug ins Private, sondern dies ist eine pastorale Priorität, dies ist ein seelsorgliches Tun, in dem wir selber neu Priester werden, neu von Christus angefüllt werden, die anderen in die betende Kirche hineinnehmen und zugleich die Kraft des Gebetes, die Gegenwart Jesu Christi, hineinströmen lassen in diese Welt. Das Motto dieser Tage hat gelautet: »Wer glaubt, ist nie allein«. Dieses Wort gilt und soll gelten gerade auch für uns Priester, für jeden von uns. Und wieder gilt es in einem doppelten Sinn: Wer Priester ist, ist nie allein, weil Jesus Christus immer bei ihm ist. Er ist bei uns; seien wir auch bei ihm! Aber es muß auch in dem anderen Sinn gelten: Wer Priester wird, wird in ein Presbyterium hineingefügt, in eine Gemeinschaft von Priestern mit dem Bischof. Und er ist Priester im Mitsein mit seinen Mitbrüdern. Mühen wir uns darum, daß dies nicht nur eine theologische und juristische Vorgabe bleibt, sondern daß es für jeden von uns erfahrbar wird. Schenken wir uns dieses Mitsein, gerade denen, von denen wir wissen, daß sie unter Einsamkeit leiden, daß Fragen und Nöte auf sie hereinstürzen, vielleicht Zweifel und Ungewißheit! Schenken wir uns dieses Mitsein, dann werden wir in diesem Mitsein mit dem anderen, mit den anderen um so mehr und um so freudiger immer neu auch das Mitsein Jesu Christi erleben. Amen. Acta Benedicti Pp. XVI 749 NUNTIUS Occurrente XX anniversaria memoria a conventu habito inter religiones ad pacem impetrandam.* Al Venerato Fratello Mons. Domenico Sorrentino Vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino Ricorre quest’anno il ventesimo anniversario dell’Incontro Interreligioso di Preghiera per la Pace voluto dal mio venerato predecessore Giovanni Paolo II, il 27 ottobre 1986, in codesta Città di Assisi. A tale incontro, com’è noto, egli invitò non solo i cristiani delle varie confessioni, ma anche esponenti delle diverse religioni. L’iniziativa ebbe larga eco nell’opinione pubblica: costituı̀ un messaggio vibrante a favore della pace e si rivelò un evento destinato a lasciare il segno nella storia del nostro tempo. Si comprende pertanto che il ricordo di quanto allora accadde continui a suscitare iniziative di riflessione e di impegno. Alcune sono state previste proprio ad Assisi, in occasione del ventesimo anniversario di quell’evento. Penso alla celebrazione organizzata, d’intesa con codesta Diocesi, dalla Comunità di s. Egidio, sulla scia di analoghi incontri da essa annualmente realizzati. Nei giorni stessi dell’anniversario si terrà poi un Convegno a cura dell’Istituto Teologico Assisano, e le Chiese particolari di codesta Regione si ritroveranno nell’Eucaristia concelebrata dai Vescovi dell’Umbria nella Basilica di san Francesco. Infine, il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso curerà costı̀ un incontro di dialogo, di preghiera e di formazione alla pace per giovani cattolici e di altre provenienze religiose. Queste iniziative, ciascuna col suo specifico taglio, pongono in evidenza il valore dell’intuizione avuta da Giovanni Paolo II e ne mostrano l’attualità alla luce degli stessi eventi occorsi in questo ventennio e della situazione in cui versa al presente l’umanità. La vicenda più significativa in questo arco di tempo è stata senza dubbio la caduta, nell’Est europeo, dei regimi di ispirazione comunista. Con essa è venuta meno la « guerra fredda », che aveva generato una sorta di spartizione del mondo in sfere di influenza contrapposte, suscitando l’allestimento di terrificanti arsenali di armi e di * Die 2 Septembris 2006. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 750 eserciti pronti ad una guerra totale. Fu, quello, un momento di generale speranza di pace, che indusse molti a sognare un mondo diverso, in cui le relazioni tra i popoli si sarebbero sviluppate al riparo dall’incubo della guerra, e il processo di « globalizzazione » si sarebbe svolto all’insegna di un pacifico confronto tra popoli e culture nel quadro di un condiviso diritto internazionale, ispirato al rispetto delle esigenze della verità, della giustizia, della solidarietà. Purtroppo questo sogno di pace non si è avverato. Il terzo millennio si è anzi aperto con scenari di terrorismo e di violenza che non accennano a dissolversi. Il fatto poi che i confronti armati si svolgano oggi soprattutto sullo sfondo delle tensioni geo-politiche esistenti in molte regioni può favorire l’impressione che, non solo le diversità culturali, ma le stesse differenze religiose costituiscano motivi di instabilità o di minaccia per le prospettive di pace. Proprio sotto questo profilo, l’iniziativa promossa vent’anni or sono da Giovanni Paolo II assume il carattere di una puntuale profezia. Il suo invito ai leader delle religioni mondiali per una corale testimonianza di pace servı̀ a chiarire senza possibilità di equivoco che la religione non può che essere foriera di pace. Come ha insegnato il Concilio Vaticano II nella Dichiarazione Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, « non possiamo invocare Dio come Padre di tutti, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni uomini creati ad immagine di Dio ».1 Nonostante le differenze che caratterizzano i vari cammini religiosi, il riconoscimento dell’esistenza di Dio, a cui gli uomini possono pervenire anche solo partendo dall’esperienza del creato,2 non può non disporre i credenti a considerare gli altri esseri umani come fratelli. A nessuno è dunque lecito assumere il motivo della differenza religiosa come presupposto o pretesto di un atteggiamento bellicoso verso altri esseri umani. Si potrebbe obiettare che la storia conosce il triste fenomeno delle guerre di religione. Sappiamo però che simili manifestazioni di violenza non possono attribuirsi alla religione in quanto tale, ma ai limiti culturali con cui essa viene vissuta e si sviluppa nel tempo. Quando però il senso religioso raggiunge una sua maturità, genera nel credente la percezione che la fede in Dio, Creatore dell’universo e Padre di tutti, non può non promuovere tra gli 1 2 N. 5. Cfr Rm 1, 20. Acta Benedicti Pp. XVI 751 uomini relazioni di universale fraternità. Di fatto, testimonianze dell’intimo legame esistente tra il rapporto con Dio e l’etica dell’amore si registrano in tutte le grandi tradizioni religiose. Noi cristiani ci sentiamo in questo confermati ed ulteriormente illuminati dalla Parola di Dio. Già l’Antico Testamento manifesta l’amore di Dio per tutti i popoli, che Egli, nell’alleanza stretta con Noè, riunisce in un unico grande abbraccio simboleggiato dall’« arco sulle nubi » 3 e che in definitiva, secondo le parole dei profeti, intende raccogliere in un’unica universale famiglia.4 Nel Nuovo Testamento poi la rivelazione di questo universale disegno d’amore culmina nel mistero pasquale, in cui il Figlio di Dio incarnato, in uno sconvolgente atto di solidarietà salvifica, si offre in sacrificio sulla croce per l’intera umanità. Dio mostra cosı̀ che la sua natura è l’Amore. È quanto ho inteso sottolineare nella mia prima Enciclica, che inizia appunto con le parole « Deus caritas est ».5 Questa affermazione della Scrittura non solo getta luce sul mistero di Dio, ma illumina anche i rapporti tra gli uomini, chiamati tutti a vivere secondo il comandamento dell’amore. L’incontro promosso ad Assisi dal servo di Dio Giovanni Paolo II pose opportunamente l’accento sul valore della preghiera nella costruzione della pace. Siamo infatti consapevoli di quanto il cammino verso questo fondamentale bene sia difficile e talvolta umanamente disperato. La pace è un valore in cui confluiscono tante componenti. Per costruirla, sono certo importanti le vie di ordine culturale, politico, economico. In primo luogo però la pace va costruita nei cuori. Qui infatti si sviluppano sentimenti che possono alimentarla o, al contrario, minacciarla, indebolirla, soffocarla. Il cuore dell’uomo, peraltro, è il luogo degli interventi di Dio. Pertanto, accanto alla dimensione « orizzontale » dei rapporti con gli altri uomini, di fondamentale importanza si rivela, in questa materia, la dimensione « verticale » del rapporto di ciascuno con Dio, nel quale tutto ha il suo fondamento. È proprio questo che il Papa Giovanni Paolo II, con l’iniziativa del 1986, intese ricordare con forza al mondo. Egli chiese una preghiera autentica, che coinvolgesse l’intera esistenza. Volle per questo che fosse accompagnata dal digiuno ed espressa nel pellegrinaggio, simbolo del cammino verso l’incontro con Dio. E spiegò: « La preghiera comporta da parte nostra 3 4 5 Gn 9, 13.14.16. Cfr Is 2, 2ss; 42, 6; 66, 18-21; Ger 4, 2; Sal 47. 1 Gv 4, 7. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 752 la conversione del cuore ».6 Tra gli aspetti qualificanti dell’Incontro del 1986, è da sottolineare che questo valore della preghiera nella costruzione della pace fu testimoniato da esponenti di diverse tradizioni religiose, e ciò avvenne non a distanza, ma nel contesto di un incontro. In questo modo gli oranti delle varie religioni poterono mostrare, con il linguaggio della testimonianza, come la preghiera non divida ma unisca, e costituisca un elemento determinante per un’efficace pedagogia della pace, imperniata sull’amicizia, sull’accoglienza reciproca, sul dialogo tra uomini di diverse culture e religioni. Di questa pedagogia abbiamo più che mai bisogno, specialmente guardando alle nuove generazioni. Tanti giovani, nelle zone del mondo segnate da conflitti, sono educati a sentimenti di odio e di vendetta, entro contesti ideologici in cui si coltivano i semi di antichi rancori e si preparano gli animi a future violenze. Occorre abbattere tali steccati e favorire l’incontro. Sono lieto pertanto che le iniziative programmate quest’anno in Assisi vadano in questa direzione e che, in particolare, il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso abbia pensato di farne una specifica applicazione per i giovani. Per non equivocare sul senso di quanto, nel 1986, Giovanni Paolo II volle realizzare, e che, con una sua stessa espressione, si suole qualificare come « spirito di Assisi », è importante non dimenticare l’attenzione che allora fu posta perché l’incontro interreligioso di preghiera non si prestasse ad interpretazioni sincretistiche, fondate su una concezione relativistica. Proprio per questo, fin dalle prime battute, Giovanni Paolo II dichiarò: « Il fatto che noi siamo venuti qui non implica alcuna intenzione di ricercare un consenso religioso tra noi o di negoziare le nostre convinzioni di fede. Né significa che le religioni possono riconciliarsi sul piano di un comune impegno in un progetto terreno che le sorpasserebbe tutte. E neppure è una concessione al relativismo nelle credenze religiose... ».7 Desidero ribadire questo principio, che costituisce il presupposto di quel dialogo tra le religioni che quarant’anni or sono il Concilio Vaticano II auspicò nella Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane.8 Colgo volentieri l’occasione per salutare gli esponenti delle altre religioni che prendono parte all’una o all’altra delle commemorazioni assisane. Come 6 7 8 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, 1986, vol. II, p. 1253. Insegnamenti, cit., p. 1252. Cfr Nostra aetate, 2. Acta Benedicti Pp. XVI 753 noi cristiani, anch’essi sanno che nella preghiera è possibile fare una speciale esperienza di Dio e trarne efficaci stimoli nella dedizione alla causa della pace. È doveroso tuttavia, anche in questo, evitare inopportune confusioni. Perciò, anche quando ci si ritrova insieme a pregare per la pace, occorre che la preghiera si svolga secondo quei cammini distinti che sono propri delle varie religioni. Fu questa la scelta del 1986, e tale scelta non può non restare valida anche oggi. La convergenza dei diversi non deve dare l’impressione di un cedimento a quel relativismo che nega il senso stesso della verità e la possibilità di attingerla. Per la sua iniziativa audace e profetica, Giovanni Paolo II volle scegliere il suggestivo scenario di codesta Città di Assisi, universalmente nota per la figura di san Francesco. In effetti, il Poverello incarnò in modo esemplare la beatitudine proclamata da Gesù nel Vangelo: « Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio ».9 La testimonianza che egli rese nel suo tempo ne fa un naturale punto di riferimento per quanti anche oggi coltivano l’ideale della pace, del rispetto della natura, del dialogo tra le persone, tra le religioni e le culture. È tuttavia importante ricordare, se non si vuole tradire il suo messaggio, che fu la scelta radicale di Cristo a fornirgli la chiave di comprensione della fraternità a cui tutti gli uomini sono chiamati, e a cui anche le creature inanimate — da « fratello sole » a « sorella luna » — in qualche modo partecipano. Mi piace pertanto ricordare che, in coincidenza con questo ventesimo anniversario dell’iniziativa di preghiera per la pace di Giovanni Paolo II, ricorre anche l’ottavo centenario della conversione di san Francesco. Le due commemorazioni si illuminano reciprocamente. Nelle parole a lui rivolte dal Crocifisso di San Damiano — « Va’, Francesco, ripara la mia casa... » —, nella sua scelta di radicale povertà, nel bacio al lebbroso in cui s’espresse la sua nuova capacità di vedere ed amare Cristo nei fratelli sofferenti, prendeva inizio quell’avventura umana e cristiana che continua ad affascinare tanti uomini del nostro tempo e rende codesta Città meta di innumerevoli pellegrini. Affido a Lei, venerato Fratello, Pastore di codesta Chiesa di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino, il compito di portare queste mie riflessioni a conoscenza dei partecipanti alle varie celebrazioni previste per commemorare il ventesimo anniversario di quello storico evento che fu l’Incontro 9 Mt 5, 9. 754 Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale Interreligioso del 27 ottobre 1986. Voglia recare a tutti anche il mio saluto affettuoso, partecipando loro la mia Benedizione, che accompagno con l’augurio e la preghiera del Poverello di Assisi: « Il Signore vi dia pace! ». Da Castel Gandolfo, 2 settembre 2006. BENEDICTUS PP. XVI Acta Secretariae Status 755 SECRETARIA STATUS RESCRIPTUM EX AUDIENTIA Sanctus Pater Benedictus XVI, cum Secretariae Generalis Synodi Episcoporum sententiam exceperit de Ordine Synodi Episcoporum, iam annis 1969 et 1971 recognito et aucto, nunc vero rursus opportune recognoscendo atque variationibus augendo conformibus dispositionum Codicis Iuris Canonici et Codicis Canonum Ecclesiarum Orientalium, eas adprobat ac publici iuris fieri iubet. Romanus Pontifex mandat ut hic textus Ordinis Synodi Episcoporum ab omnibus, quorum interest, religiose servetur. Datum e Civitate Vaticana, die 29 mensis Septembris, anno Domini 2006. Tharsicius card. Bertone Secretarius Status ORDO SYNODI EPISCOPORUM PROOEMIUM Inter Concilii Vaticani II celebrationem, matura facta est persuasio Romanum Pontificem, in munere supremi Ecclesiae Pastoris explendo, modo manifestiore efficacioreque suam cum Episcopis unionem exercere posse.1 Ad hunc finem Paulus Papa VI, Litteris Apostolicis Apostolica sollicitudo, die 15 mensis Septembris anni 1965 datis, Synodum Episcoporum constituit,2 eiusque institutionalia structuram et munus definiit. Huius novi instituti Decreta Concilii Vaticani II Christus Dominus (n. 5) et Ad gentes (n. 29) mentionem faciunt. 1 Cfr. Paulus VI, Alloc. alla Curia Romana, 21 Septembris 1963: Insegnamenti di Paolo VI, I (1963), p. 149; Apostolica sollicitudo, Introductio, parr. 1.2.4. 2 Paulus VI, Apostolica sollicitudo: AAS (1965) 775-780. Acta Apostolicae Sedis — Commentarium Officiale 756 Synodus Episcoporum, totum quodammodo repraesentans Episcopatum catholicum, peculiarem in modum communionis animum ostendit, qui Episcopos et cum Romano Pontifice et inter se iungit.3 Locus insignis est, in quo coetus Episcoporum, Romani Pontificis potestati directe atque immediate subiectus,4 Episcoporum affectum collegialem et sollicitudinem de totius Ecclesiae bono demonstrans, suum firmum consilium, Spiritu agente, de variis ecclesialibus quaestionibus profert.5 Attamen, « quod Synodus plerumque munus gerit solum consultivum, id eius pondus haud extenuat. In Ecclesia namque cuiuslibet collegialis instituti finis, cum consultivus tum deliberativus, semper est veritatis bonive Ecclesiae conquisitio. Cum porro de eadem agitur fide comprobanda, consensus Ecclesiae haud votis computatis praebetur, sed fructus est agentis Spiritus, animae unius Christi Ecclesiae ».6 Codex Iuris Canonici, die 25 mensis Ianuarii anni 1983 promulgatus, in canones redegit praecipua elementa Synodi Episcoporum structurae,7 quam, pariter atque Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, promulgatus die 18 mensis Octobris anni 1990, adscripsit organismis, qui, suo quisque officio congruenter, Romano Pontifici praesto sunt in suprema auctoritate exercenda.8 Ad Synodi Episcoporum structuram et operam necnon rationem procedendi in diversis coetibus aptius disponendam, statim post eius institutionem Ordo Synodi Episcoporum die 8 mensis Decembris anni 1966 promulgatus est.9 Quae norma praeceptiva postea, duabus diversis occasionibus datis, recognita est atque ditata elementis, quae e Synodis actu celebratis progressa erant.10 3 Cfr. C. I. C., can 342. Cfr. Paulus VI, Apostolica sollicitudo, Introductio, par. 4. 5 Cfr. Paulus VI, Apostolica sollicitudo, Introductio, par. 1; Concilium Oecumenicum Vaticanum II, Decr. Christus Dominus, n. 5; Ioannes Paulus II, Adhort. Ap. post-synodalis Pastores gregis (16 Octobris 2003), n. 58: AAS 96 (2004) 902-905. 6 Ioannes Paulus II, Adhort. Ap. post-synodalis Pastores gregis (16 Octobris 2003), n. 58: AAS 96 (2004) 902-905. 7 Cfr. C. I. C., potissimum cann. 342-348. 8 Cfr. C. I. C., can. 334; C.C.E.O., can. 46. 9 Cfr. Ordo Synodi Episcoporum, AAS 59 (1967) pp. 91-103. 10 Ordo Synodi Episcoporum celebrandae recognitus et auctus (24 Iunii 1969): AAS 61 (1969) 525-539; Ordo Synodi Episcoporum celebrandae recognitus et auctus nonnullis additamentis (20 Augusti 1971): AAS 63 (1971) 702-704. 4 Acta Secretariae Status 757 Ut necessitatibus certis, in Synodis celebrandis ortis, obviam iretur, decursu annorum perinde aliae normae fuerunt addendae atque Modus procedendi in Circulis Minoribus fuit exarandus et certorum quorundam articulorum Explicationes Quaedam adiciendae fuerunt. Usus rerum et experientia, quae his quadraginta annis coetibus Synodi Episcoporum celebrandis aucta sunt, ut Ordo Synodi Episcoporum recognosceretur necessario suaserunt, ut ea quoque iuridica statuta comprehenderet, quae aliae normae completivae subinde datae sanxissent. Huic documento est Modus Procedendi in Circulis Minoribus adnexus. PARS PRIMA DE SUPREMA POTESTATE DEQUE PERSONIS IN SYNODO EPISCOPORUM PARTEM HABENTIBUS CAPUT I DE ROMANO PONTIFICE Art. 1 De Romani Pontificis potestate § 1. Synodus Episcoporum directe subest auctoritati Romani Pontificis, cuius quidem proprie est: 1º convocare Synodum Episcoporum, quotiescumque id ipsi opportunum videatur, locumque designare ubi coetus habendi sint; 2º quaestiones pertractandas statuere opportuno tempore ante Synodi celebrationem; 3º sodalium, qui ad normam art. 6, § 1, § 2 eligendi sunt, electionem ratam habere aliosque sodales nominare; 4º decernere ut argumentorum pertractandorum materia iis, qui disceptationi adesse debent, nota fiat; 5º rerum agendarum ordinem definire; 758 Acta Apostolicae Sedis — Commentarium Officiale 6º per se aut per alios Synodo praeesse; 7º circa vota prolata decernere; 8º decisiones ratas habere cum, certis in casibus, potestate deliberativa Synodum instruxerit; 9º Synodum ipsam concludere, transferre, suspendere et dissolvere. § 2. Sede Apostolica post convocatam Synodum aut inter eius celebrationem vacante vel impedita, statim suspenditur Synodus, donec novus Pontifex ipsam continuandam aut ex novo convocandam decreverit. CAPUT II DE PRAESIDE DELEGATO Art. 2 De Praesidis Delegati nominatione § 1. Praeses Delegatus nomine et auctoritate Romani Pontificis coetui praeest. § 2. Praeses Delegatus a Romano Pontifice nominatur, eiusque munus cessat post absolutum coetum, pro quo nominatus erat. § 3. Si Romanus Pontifex plures deputaverit, qui coetui praesint, hi officio fungentur alter alteri succedentes, ordine ab ipso Romano Pontifice statuto. Art. 3 De Praesidis Delegati muneribus Praesidis Delegati est: 1º moderari Synodi labores, iuxta facultates sibi in litteris delegationis tributas, secundum ordinem rerum agendarum statutum, necnon servatis normis procedendi in hoc Ordine praescriptis; 2º quibusdam Sodalibus, cum opportunitas id suadeat, peculiaria munera tribuere, ut coetus aptiore ratione suis vacet laboribus; 3º acta coetus subsignare. Quod si Praesides Delegati plures sint, omnes acta conclusiva coetus subsignant. Acta Secretariae Status 759 CAPUT III DE SYNODI COETIBUS Art. 4 De synodalium coetuum generibus Synodus Episcoporum congregatur: 1º in coetum generalem ordinarium, si, suapte natura ac momento, res tractandae suadeant pro bono Ecclesiae universae doctrinam, prudentiam atque vota totius Catholici orbis Episcopatus esse exquirenda; 2º in coetum generalem extraordinarium, si res tractandae, etiamsi ad bonum Ecclesiae universae spectent, expeditam tamen definitionem requirant; 3º in coetum specialem, si maioris momenti negotia respiciant Ecclesiae bonum, quod ad unam vel plures regiones praesertim pertineat. CAPUT IV DE MEMBRIS SEU SODALIBUS Art. 5 De Synodi participibus § 1. Coetui Generali Ordinario Synodi intersunt: 1º a) Patriarchae, Archiepiscopi Maiores, Metropolitae Ecclesiarum Metropolitanarum sui iuris Ecclesiarum Orientalium Catholicarum aut Episcopus peritus in materia pertractanda in Synodo a Patriarcha, ab Archiepiscopo Maiore, a Metropolita Ecclesiarum Metropolitanarum sui iuris, de consensu Synodi Episcoporum aut Consilii Hierarcharum Ecclesiae, cui praesunt, designatus; 1º b) Episcopi electi a Synodis Episcoporum et a Consiliis Hierarcharum Ecclesiarum Orientalium Catholicarum, ad normam art. 6, § 1, 5º; 1º c) Episcopi electi a singulis Conferentiis Episcopalibus nationalibus iuxta art. 6, § l, 3º; 1º d) Episcopi electi a Conferentiis Episcopalibus plurium nationum, constitutis scilicet pro iis nationibus, quae propriam Conferentiam non habent, ad normam art. 6, § 1, 4º; Acta Apostolicae Sedis — Commentarium Officiale 760 1º e) Viri Religiosi decem qui partes agunt Institutorum Religiosorum Clericalium, electi ab Unione Superiorum Generalium, iuxta art. 6, § 2. 2º Praepositi Curiae Romanae Dicasteriis. § 2. Coetui Extraordinario intersunt: 1º a) Patriarchae, Archiepiscopi Maiores, Metropolitae Ecclesiarum Metropolitanarum sui iuris Ecclesiarum Orientalium Catholicarum aut, obstante impedimento, Episcopus designatus ad normam art. 5, § 1, 1º a; 1º b) Praesides Conferentiarum Episcopalium nationalium aut, obstante impedimento, primus inter Praesidis Vicarios; 1º c) Praesides Conferentiarum Episcopalium plurium nationum, pro iis nationibus constitutarum, quae propriam Conferentiam non habent, aut, obstante impedimento, primus inter Praesidis Vicarios; 1º d) Viri Religiosi tres qui partes agunt Institutorum Religiosorum Clericalium, electi ab Unione Superiorum Generalium; 2º Praepositi Curiae Romanae Dicasteriis. § 3. Coetui Speciali intersunt: 1º Patriarchae, Archiepiscopi Maiores, Metropolitae Ecclesiarum Metropolitanarum sui iuris Ecclesiarum Orientalium Catholicarum aut Episcopus peritus in materia pertractanda in Synodo a Patriarcha, ab Archiepiscopo Maiore, a Metropolita Ecclesiarum Metropolitanarum sui iuris de consensu Synodi Episcoporum aut Consilii Hierarcharum Ecclesiae, cui praesunt, designatus; Episcopi Orientales electi ad normam art. 5, § 1, 1º b, pariter ac repraesentantes sive Conferentiarum Episcopalium unius vel plurium nationum, sive Institutorum Religiosorum Clericalium, ad mentem huius ipsius articuli sub § 1, articuli 6, § 1, 4º et, quoad Religiosorum numerum, articuli 6, § 2, 4º, qui omnes tamen ad regiones pertineant pro quibus Synodus Episcoporum convocata est. 2º Coetui Speciali intersunt etiam Praepositi Curiae Romanae Dicasteriis, quibus ratio et causa cum materiis tractandis est. § 4. Singulis coetibus intersunt etiam Sodales, sive Episcopi sive Religiosi qui partes agunt Institutorum Religiosorum Clericalium sive etiam ecclesiastici Acta Secretariae Status 761 viri periti, a Romano Pontifice nominati, usque ad quindecim centesimas partes universi numeri Membrorum. Art. 6 De Sodalibus eligendis § 1. 1º Episcopi a Conferentiis Episcoporum unius vel plurium nationum deputati ii habendi sunt, qui electi fuerint per secreta suffragia a sua quisque Conferentia in plenaria sessione coadunata. 2º Hae electiones fiunt ad normam C.I.C., can. 119, lº. Si plures eligendi sint, pro singulis electionibus proprium habeatur scrutinium, ita ut alter non eligatur nisi postquam prior electus fuerit. 3º Episcopi ita eliguntur: 1º a) unus repraesentans pro unaquaque Conferentia Episcopali nationali, quae constet non plus quam 25 membris; 1º b) duo repraesentantes cum ipsa constet membris a 26 usque ad 50; 1º c) tres repraesentantes cum ipsa constet membris a 51 usque ad 100; 1º d) quattuor repraesentantes cum ipsa constet membris plus quam 100. 4º Conferentiae Episcopales plurium nationum eligunt eos, qui ipsarum partes agunt, secundum easdem normas. 5º Ab Ecclesiis Orientalibus Catholicis, praeter ea quae statuta sunt in art. 5, § 1, 1º a, eligi poterit unus repraesentans, ad mentem C.C.E.O., can. 956, § 1, pro Synodo Episcoporum aut Consilio Hierarcharum, cum constet membris a 26 usque ad 50, duo repraesentantes pro Synodo aut Consilio Hierarcharum, cum constet membris a 51 usque ad 100. 6º In eligendis Episcopis summopere ratio habenda est non solum ipsorum scientiae et prudentiae generatim, sed etiam cognitionis, ad theoriam et praxim quod attinet, materiae de qua Synodus pertractabit. 7º Electorum nomina Praepositi Ecclesiis Orientalibus Catholicis, de quibus in art. 5, § 1, 1º a, atque Praesides Conferentiarum Episcopalium communicabunt cum Secretario Generali per Legatum Pontificium suae nationis, idque saltem quinque mensibus ante inchoandum coetum. Acta Apostolicae Sedis — Commentarium Officiale 762 § 2. 1º Electio Virorum Religiosorum, de quibus in art. 5 huius Ordinis, fit, congrua congruis referendo, ad normam § 1, 2º huius articuli. 2º In eligendis Viris Religiosis ratio habeatur non solum ipsorum scientiae et prudentiae generatim, sed etiam cognitionis, ad theoriam et praxim quod attinet, materiae de qua Synodus pertractabit. 3º Electorum nomina Praeses Unionis Superiorum Generalium communicabit cum Secretario Generali saltem quinque mensibus ante inchoandum coetum. 4º Sodales, nec plures quidem quam duo, ad partes agendas Institutorum Religiosorum in Coetu Speciali Synodi ab Unione Superiorum Generalium eligentur inter viros peritos, qui sive materiam rerum agendarum sive regiones, etsi e loco non sint, cognoscunt, pro quibus Synodus convocata est. § 3. Episcoporum et Religiosorum, qui electi sint, nomina publici iuris ne fiant, donec ipsorum electionem Romanus Pontifex ratam habuerit. § 4. Synodi Episcoporum et Consilia Hierarcharum Ecclesiarum Orientalium Catholicarum, Conferentiae Episcopales et Unio Superiorum Generalium, de quibus in § 1 et § 2, unum alterumve Sodalium Substitutum eligant, qui, Romano Pontifice approbante, solummodo partem in Synodo agere poterit, si quis Sodalium electorum adesse nequiverit. § 5. Ineunte quolibet synodali coetu, Sodales electi exhibebunt Romano Pontifici, per Secretarium Generalem, authenticum suae deputationis instrumentum a Praeposito propriae Ecclesiae Orientali Catholicae, sive a Praeposito vel a Secretario Conferentiae Episcopalis, aut, si de Religiosis agatur, a Praeside vel a Secretario Unionis Superiorum Generalium subsignatum. Art. 7 De aliis participibus Invitari possunt Synodo, absque ullo suffragium ferendi iure, personae aliae prout: 1º Adiutores Secretarii Specialis, ad normam art. 14, § 4 designati, qui cum Secretario Speciali collaborent intuitu Relationis post disceptationem necnon Elenchi Propositionum vel aliorum, si forte accidat, documentorum; 2º Auditores, qui synodalibus laboribus adsint; Acta Secretariae Status 763 3º Delegati Fraterni, qui ecclesias et ecclesiales communitates repraesentent, quae cum Ecclesia Catholica plena communione non fruuntur. CAPUT V DE COMMISSIONIBUS STUDIORUM Art. 8 De Commissionibus studiorum constituendis § 1. 1º Si res, de qua in Synodo agitur ulteriore enucleatione indigeat, Praesidis Delegati est, de consensu Romani Pontificis, peculiares inter Sodales Commissiones Studiorum constituere. 2º Uniuscuiusque propterea Commissionis est tantummodo studere textui argumenti melius forte redigendo aut difficultati propositae solvendae. § 2. Nisi aliter statutum fuerit a Romano Pontifice, singulae Commissiones constant ex duodecim membris, in materia peritis, quorum octo a Coetu eliguntur, quattuor vero nominantur a Romano Pontifice. § 3. De Romani Pontificis assensu, constituetur, ad normam praecedentis § 2, etiam Commissio Nuntio vel alii Documento forte redigendo, quod, Patribus Synodalibus approbantibus, publici iuris fiet. Art. 9 De Sodalibus Commissionum Studiorum eligendis 1º Electiones Sodalium Commissionum Studiorum ad normam C. I. C., can. 119, lº fiunt. 2º Inter electos vel nominatos Romanus Pontifex Praesidem et Praesidis Vicarium eligit. 3º Sodalis uniuscuiusque Commissionis eligi potest quilibet e Patribus, exceptis Praeside Delegato, Secretario Generali et Relatore Generali. 4º Secretarius Commissionis erit unus ex ipsius Sodalibus ab iisdem electus. 5º Commissionibus Studiorum intererit Secretarius Specialis, qui praesto erit in discussione argumenti, pro quo Commissio statuta est. 764 Acta Apostolicae Sedis — Commentarium Officiale CAPUT VI DE COMMISSIONE QUERELARUM Art. 10 De Commissionis Querelarum constitutione et munere Initio uniuscuiusque coetus constituitur a Romano Pontifice Commissio trium Sodalium, cuius est porrectas querelas rite examinare et ad ipsum Romanum Pontificem deferre. CAPUT VII DE SECRETARIA GENERALI SYNODI EPISCOPORUM Art. 11 De Secretariae Generalis Synodi constitutione § 1. Secretaria Generalis Synodi Episcoporum est institutum permanens in servitium Synodi conditum, ita ut sit inter diversos eiusdem coetus ligamen. § 2. Secretariae Synodi partem, suo pro munere, habent Secretarius Generalis et Consilium Secretariae. Art. 12 De Secretarii Generalis nominatione, muneribus et adiutoribus § 1. Secretarius Generalis a Romano Pontifice nominatur atque ad ipsius Romani Pontificis nutum munus suum exercet. § 2. Secretarii Generalis est iussa et mandata Romani Pontificis exsequi atque cum Eo communicare omnia quae ad Synodum spectant. § 3. Secretarius Generalis coetuum synodalium Sodalis est. In principio coetus laborum Relationem de Synodo apparanda profert, officia Secretariae moderatur eiusque acta subsignat. § 4. Secretarii Generalis item est labores Consilii Secretariae praeparare et promovere necnon sessiones eiusdem Consilii moderari. § 5. Ad Secretarium Generalem quoque pertinet: 1º mittere, de mandato Romani Pontificis, epistulas convocationis et ordinem rerum agendarum uniuscuiusque coetus Synodi, necnon documenta, instructiones et notitias ad eundem coetum spectantia; Acta Secretariae Status 765 2º communicare cum omnibus, quorum interest, nomina Membrorum seu Sodalium libere a Romano Pontifice designatorum ad normam n. X Litterarum Apostolicarum Apostolica sollicitudo, diei 15 mensis Septembris anni 1965; communicare item nominationem Praesidentis Delegati, Relatoris Generalis et Secretarii Specialis uniuscuiusque coetus a Romano Pontifice factam; 3º referre Romano Pontifici ea quae in laboribus Consilii Secretariae Generalis peracta sunt; 4º ordinem uniuscuiusque coetus praeparare atque Romano Pontifici subicere res in eo agendas et elenchum Membrorum, quae ratihabitione indigent; 5º synodalibus laboribus decurrentibus, curare singula munera tribuenda Sodalibus diversis, officiorum cumulo vitando; 6º transmittere processum verbalem uniuscuiusque coetus Synodi Patribus: Patriarchis, Archiepiscopis Maioribus et Metropolitis Ecclesiarum Metropolitanarum sui iuris, Praesidibus Conferentiarum Episcopalium, Praepositis Curiae Romanae Dicasteriis, Praesidi Unionis Superiorum Generalium; 7º exsequi ea quae Synodus Episcoporum ipsi mandaverit; 8º colligere, in ordinem disponere et asservare acta et documenta. § 6. Adiutores Secretarii Generalis nominantur, approbante Romano Pontifice, a Secretario Generali ex eoque dependent. § 7. Iidem Adiutores eliguntur inter ecclesiasticos viros idoneos et aptos, scientia et prudentia praeditos. § 8. Si res postulet, periti in rebus technicis a Secretario Generali, approbante Romano Pontifice, eligi possunt. Art. 13 De Consilii Secretariae Generalis constitutione, muneribus et conventibus § 1. Consilium Ordinarium Secretariae Generalis in fine cuiusque Coetus Generalis Ordinarii Synodi constituitur. § 2. Idem constat quindecim Sodalibus, quorum duodecim ab ipsa Synodo eliguntur, ratione habita repraesentationis Episcoporum in toto orbe diffusorum, tres vero a Romano Pontifice designantur. 766 Acta Apostolicae Sedis — Commentarium Officiale § 3. Electio Sodalium fit per scrutinium secretum et vim habet iuris cum, demptis suffragiis nullis, parti absolute maiori eorum, qui suffragium dederunt, placuerit, aut, post primum inefficax scrutinium, parti relative maiori in secundo scrutinio. Quod si suffragia aequalia fuerint, servabitur norma C.I.C., can. 119, 1º. § 4. Episcopi in Consilio Secretariae Generalis electi munus suum servant, donec sequens Coetus Generalis Ordinarius initium habeat. § 5. Consilii Secretariae Generalis est adiutricem operam Secretario Generali praestare: 1º in examinandis omnibus quae a Synodis Episcoporum et Consiliis Hierarcharum Ecclesiarum Catholicarum Orientalium, Episcoporum Conferentiis, Dicasteriis Curiae Romanae et Unione Superiorum Generalium proponuntur quoad quaestiones in Synodo tractandas, ratione habita art. 1, § 1, 2º; 2º in praeparandis laboribus in proximo Synodi coetu persolvendis; 3º in praebendis consiliis quoad ea exsequenda quae a Synodo prolata et a Romano Pontifice approbata sunt; 4º in aliis demum quaestionibus quas Romanus Pontifex ipsi commiserit. § 6. Sodales Consilii Secretariae Generalis a Secretario Generali convocantur bis in anno et insuper quoties, de iudicio Romani Pontificis, id opportunum esse videatur. § 7. Similiter atque in Coetu Generali Ordinario, in fine Coetus Specialis Consilium Speciale Secretariae Generalis constituitur ad quinquennium, quo transacto Romanus Pontifex decernit ipsumne Consilium prorogandum atque Sodales confirmandi vel substituendi sint. CAPUT VIII DE RELATORE GENERALI ET SECRETARIO SPECIALI Art. 14 De Relatoris Generalis et Secretarii Specialis nominatione § 1. Relator Generalis nominatur a Romano Pontifice pro unoquoque coetu. § 2. Secretarius Specialis nominatur a Romano Pontifice pro unoquoque coetu, in quo argumentum tractetur, cuius ipse sit peritus. Acta Secretariae Status 767 § 3. Si argumenta diversa sunt, tot Secretarii Speciales nominantur quot sunt argumenta discutienda. § 4. Si casus ferat, nominantur a Romano Pontifice Adiutores Secretarii Specialis, de quibus in art. 7, 1º. § 5. Coetu absoluto, Relatoris Generalis et Secretarii Specialis munera cessant. Art. 15 De Relatoris Generalis et Secretarii Specialis muneribus § 1. Relatoris Generalis est: 1º parare Relationem ante disceptationem et Relationem post disceptationem, de quibus ad artt. 31 et 32; 2º praeesse operi textum parandi Propositionum vel aliorum documentorum, quae, sub cura Secretarii Specialis exarata, suffragationi Patrum subicienda sunt, atque eadem in sessione plenaria proferre. § 2. Secretarius Specialis haec munera explet: 1º adest Relatori Generali in omnibus eius officiis; 2º ipso moderante, opus Adiutorum componit et curat ut exarentur Propositiones vel alia documenta suffragationi Patrum subicienda. § 3. Secretarius Specialis praesto est Praesidi Delegato, Relatori Generali et Secretario Generali pro apparandis documentis et relationibus; pro explanationibus et notitiis, iis praebendis, qui illas forte petant; pro actis denique conficiendis. § 4. In discussione argumenti fas est cuilibet Patri, de consensu Praesidis Delegati et ordine ab eo statuto, explicationes et notitias petere sive a Relatore sive praesertim a Secretario Speciali. CAPUT IX DE NOTITIIS CIRCA SYNODUM VULGANDIS Art. 16 De Commissione notitiis circa Synodum vulgandis § 1. Ad dandas notitias de Synodi conventibus et actuositate constituitur peculiaris Commissio, constans ex his Membris: Praeside et Praesidis Vicario, a Romano Pontifice nominatis, Secretario Generali Synodi, Secretario Speciali Synodi, Praeside Pontificii Consilii de Communicationibus Socialibus, 768 Acta Apostolicae Sedis — Commentarium Officiale Directore Sedis Vaticanae Diurnariis Edocendis, necnon quinque Patribus Synodalibus, a Praeside Delegato designatis, iuxta elenchum candidatorum a Commissionis Praeside propositorum. § 2. Commissionis Secretarius erit Director Sedis Vaticanae Diurnariis Edocendis. § 3. Commissioni competit, approbante Praeside Delegato, determinare rationes et modos, quibus notitiae vulgentur. § 4. Per Patres Synodales, a Praeside Commissionis, Praeside Delegato approbante, designatos, collationes cum diurnariis de singulis argumentis identidem fient. PARS SECUNDA NORMAE GENERALES CAPUT I DE SYNODO EPISCOPORUM CONVOCANDA Art. 17 De ratione Synodi convocandae § 1. Synodus Episcoporum a Romano Pontifice opportuno tempore opportunisque modis convocatur. § 2. Praesidis Delegati est proximae congregationis diem et horam necnon materiam tractandam iuxta praestitutum ordinem indicare. § 3. Intimatio singulorum Sodalium tunc tantum locum habet, cum id Praeses Delegatus necessarium iudicaverit. CAPUT II DE VESTIBUS ADHIBENDIS Art. 18 De vestibus in coetu adhibendis In coetus congregationibus Sodales, ad quos pertinet, habitum pianum induunt sine lacerna; ceteri proprium publicum. Acta Secretariae Status 769 CAPUT III DE PRAECEDENTIA Art. 19 De praecedentiae ordine § 1. Serventur, pro praecedentia, praescripta canonica et consuetudines. § 2. Si qui Sodalis forte extra ordinem sedeat, sententiam proferat vel alios actus faciat, nullum ius acquirit, ac nemini praeiudicium affert. CAPUT IV DE SECRETO SERVANDO Art. 20 De obligatione secreti servandi Salvo praescripto art. 16, omnes qui in Synodo partem habent vinciuntur secreto quod attinet et ad actus praeparatorios et ad labores ipsius coetus, praesertim quod spectat ad singulorum sententias et suffragia atque coetus decisiones conclusionesque. CAPUT V DE LINGUA SYNODO ADHIBENDA Art. 21 De lingua in coetibus et actis adhibenda In Coetu Generali Synodi et in actis conficiendis lingua latina adhibetur. Praeses Delegatus alias linguas adhibendi facultatem concedere potest. CAPUT VI DE COLLIGENDIS AC DISTRIBUENDIS ACTIS ET DOCUMENTIS Art. 22 De ratione colligendi ac distribuendi acta et documenta § 1. Omnia acta et documenta colliguntur et distribuuntur per Secretarium Generalem. 770 Acta Apostolicae Sedis — Commentarium Officiale § 2. Argumenta, de quibus in coetu Synodi agendum est, transmittuntur antequam coetus initium capiat, ita ut tempus habeatur ad convocandos organismos quibus competit, ut rogentur sententiam. CAPUT VII DE SENTENTIA EXQUIRENDA AB ORGANISMIS QUIBUS COMPETIT Art. 23 De ratione sententiae exquirendae § 1. Res, quas pertractandas Romanus Pontifex in Synodi convocatione statuerit, a Synodis Episcoporum et a Consiliis Hierarcharum Ecclesiarum Orientalium Catholicarum, ab unaquaque Episcoporum Conferentia, a Dicasteriis Curiae Romanae et ab Unione Superiorum Generalium studiose antea perspiciantur oportet. § 2. De earundem rerum agendarum definitione unusquisque Episcopatus suam communem sententiam exprimit aptiore, quae ipsi videatur, ratione. § 3. Huiusmodi sententia a singulis Sodalibus pro Synodo deputatis in Synodi coetu exprimitur. § 4. Patrum consensus, synodali disceptatione absoluta, exprimitur per Propositiones vel alia documenta, quae subiciuntur suffragationi, deinde Romano Pontifici traduntur prout Synodi conclusiones. CAPUT VIII DE SUFFRAGIIS Art. 24 De suffragiis ferendis Postquam Sodales sententiam, de qua in art. 23, § 3, expresserunt, si Romanus Pontifex id constituerit, ad ferenda suffragia proceditur. Art. 25 De formula et modo ferendi suffragia § 1. Suffragia in Synodo feruntur formula: placet, non placet, placet iuxta modum, si agitur de schemate approbando, sive integro sive per partes diviso; Acta Secretariae Status 771 feruntur vero formula: placet, non placet, in emendationibus seu modis approbandis et in aliis suffragationibus. § 2. Qui suffragium dederit formula: placet iuxta modum, officio tenetur modum clare et concinne scripto tradere. § 3. Suffragia exprimuntur aptis schedulis, nisi Praeses Delegatus alium modum praeceperit, v. gr. surgendo vel manu elevanda. Art. 26 De suffragiorum maioritate § 1. Ad maioritatem suffragiorum constituendam, si agitur de re approbanda, requiruntur duae tertiae partes suffragiorum Sodalium, qui suffragia ferunt; si vero de reicienda, eorundem Sodalium maioritas absoluta. § 2. Praescriptum § 1 servetur sive consilium praestandum est Romano Pontifici, sive, obtenta eiusdem Romani Pontificis licentia, est de re decernendum. § 3. Quoties de ratione procedendi quaestio movetur, ea per maioritatem absolutam Sodalium, qui suffragium ferunt, solvitur. CAPUT IX DE SODALIUM ABSENTIA Art. 27 De obligatione significandi absentiam Quisquis congregationibus interesse nequeat, is Praesidi Delegato, per Secretarium Generalem, absentiae rationem significare debet. CAPUT X DE RESIDENTIA Art. 28 De dispensatione ab obligatione residentiae Omnes, qui Synodo interesse tenentur vel eidem operam quovis titulo legitime impendunt, coetu perdurante et donec eidem adsunt vel inserviunt, ab obligatione residentiae eximuntur et reditus proprii consueti officii percipere valent. 772 Acta Apostolicae Sedis — Commentarium Officiale PARS TERTIA DE RATIONE PROCEDENDI CAPUT I DE RITIBUS SACRIS Art. 29 De coetu inaugurando et absolvendo § 1. Coetus Synodi inauguratur celebratione Eucharistiae et cantu hymni Veni, Creator Spiritus. § 2. Idem coetus absolvitur celebratione Sanctae Missae et cantu hymni Te Deum. CAPUT II DE IMMISSIONE IN OFFICIUM PRAESIDIS DELEGATI Art. 30 De ratione immissionis in officium Ineunte Synodo in coetum congregata, si casus ferat, Secretarius Generalis perlegit pontificium documentum, quo deputatur Praeses Delegatus, qui statim officium capit suum. CAPUT III DE RELATIONIBUS RELATORIS GENERALIS Art. 31 Relatio ante disceptationem § 1. Relatio, qua materia in Synodo tractanda exponitur et enucleatur, ratione habita quaestionum de quibus disceptandum erit, a Relatore Generali paratur, cui Romanus Pontifex, cum coetus quilibet convocatur, hoc munus contulerit. Acta Secretariae Status 773 § 2. Relatori Generali praesto esse debet Secretarius Specialis. § 3. Textus Relationis ante disceptationem, in Synodo proferendae, saltem triginta diebus ante inchoandum coetum perveniat ad Secretarium Generalem, qui curat exemplaria pro Sodalibus paranda. Art. 32 Relatio post disceptationem Patrum Synodalium interventionibus absolutis, Relator Generalis, quod pertinet ad argumenta in Aula perpensa, disceptationis summam, quae Relatio post disceptationem vocatur, porrigit, idemque eas quaestiones illustrat, de quibus fortasse in Circulis Minoribus vel alium in modum investigandum adhuc sit. CAPUT IV DE RATIONE PROCEDENDI IN COETIBUS SYNODI Art. 33 De argumentorum propositione Praeses Delegatus argumentum disceptandum nuntiat et Relatorem Generalem vocat, qui Relationem iam apparatam et Patribus distributam summatim exponit et explicat, adiutorio usus, si necesse sit, Secretarii Specialis. Art. 34 De argumentorum discussione § 1. 1º Praeses Delegatus, iuxta indicem a Secretario Generali confectum, ex ordine ad dicendum vocat Sodales, qui pridie nomina sua in eum finem significaverint. 2º Patres, qui dicere postulaverunt, alter alteri succedunt iuxta ordinem petitionis loquendi. 3º Qui Synodos Episcoporum et Consilia Hierarcharum Ecclesiarum Orientalium Catholicarum et Conferentias Episcopales repraesentant, ipsorum nomine, iuxta facultates sibi tributas, dicant. Acta Apostolicae Sedis — Commentarium Officiale 774 4º De una eademque quaestione, nomine Organismorum quibus competit, unus tantum Pater dicat. § 2. 1º Si multi sint, qui disserendi veniam petierint, rogantur Patres ne repetant quae alii iam exposuerunt, sed ad ea, quae iam dicta sint, paucis se referant. 2º Eodem in casu Praesidis Delegati est coadunare, vel per semetispum vel per Patrem a se deputatum iuxta articulum 3, 2º, in separatis conventibus Patres oratores ad concordandum, salva omnium libertate, ut pauci nomine omnium, iuxta diversitatem sententiarum, dicant. § 3. 1º Patres, qui facultatem disserendi petierunt, etsi non dixerint, suas animadversiones Secretariae Generali scripto dabunt, quae tamen aeque existimabuntur et perpendentur atque interventiones in Aula prolatae. 2º Qui autem dicunt, orationes suas spatio temporis a Praeside Delegato statuto contineant. § 4. Praevio consensu Romani Pontificis, determinatis temporibus disceptatio libera inter Patres persolvi potest iuxta modos a Secretario Generali, Praeside Delegato adsentiente, statutos. § 5. Praesidis Delegati est coetui Patrum Synodalium in Aula congregato proponere ut disceptationi finis imponatur. Quo in casu per maiorem partem suffragiorum res definiatur. Art. 35 De circulis minoribus Patrum Synodalium interventionibus absolutis, Praeses Delegatus, si hoc opportunum iudicaverit, potest in Circulis Minoribus argumenti discussionem promovere, quae iuxta Modum Procedendi huic Ordini adnexum fiet. In hisce Circulis, secundum varias linguas distinguendis, Patres Synodales Moderatorem et Relatorem eligant et, discussione argumenti absoluta, committant Relatori, ut nomine aliorum sententiam proferat in congregatione generali. Acta Secretariae Status 775 Art. 36 De responsionibus § 1. Si qui Pater, auditis aliorum animadversionibus, respondere seu aliquid obicere intendit, hanc facultatem a Praeside Delegato petere potest. § 2. Praesidis Delegati est facultatem respondendi concedere et diem statuere, qua responsio fiat. § 3. Die statuta, Praeses Delegatus, iuxta indicem a Secretario Generali confectum, vocat Patres, qui respondere petierunt. § 4. Oratores, nisi tempus ad respondendum Praeses Delegatus definierit, brevissimo sermone suas responsiones contineant. § 5. Possunt oratores nomine plurium Sodalium respondere, quorum, si hoc faciunt, nomina indicare debent. § 6. Responsiones scripto Secretario Generali dein tradendae sunt. Art. 37 De navitate Commissionum Studiorum § 1. Si ex habita disceptatione constet argumentum ulteriore enucleatione indigere, potest Praeses Delegatus, de consensu Romani Pontificis et modis ab eodem statutis iuxta articulum 8, peculiarem Commissionem constituere, quae in hoc opus incumbat. § 2. Interea ad subsequentis argumenti examen proceditur. § 3. 1º Cum Commissio Studiorum suas conclusiones exhibuerit, eae a Relatore, per Commissionem designato, Sodalibus illustrantur. 2º Si Patres postulant, potest Praeses Delegatus brevissimam disceptationem circa has conclusiones concedere; quae disceptatio fit iuxta art. 34. Art. 38 De voto exprimendo § 1. Expleta disceptatione, singuli Patres mentem suam iuxta sententiam, de qua in art. 23, § 2, pandunt per votum scripto deinde Secretario Generali tradendum. 776 Acta Apostolicae Sedis — Commentarium Officiale § 2. Si, ex voluntate Romani Pontificis, suffragatio facienda sit, haec ad normam articulorum 24-26 peragitur. Art. 39 De examinandis et suffragationi subiciendis Propositionibus et documentis § 1. Modis insertis, Relator Generalis, Secretarius Specialis et Secretarius Generalis Propositiones vel alia, si qua forte sint, documenta typis imprimenda curant. § 2. Statuto tempore Patres, auditis textibus de quibus in praecedenti paragrapho, ad exprimenda suffragia de ipsis procedunt. § 3. Suffragatio fit formula: placet, non placet. § 4. Propositiones vel alia documenta, per hanc suffragationem probata, Romano Pontifici traduntur, ad normam articuli 23, § 4. CAPUT V DE RELATIONE CIRCA PERACTOS LABORES Art. 40 De Relatione facienda Coetus laboribus absolutis, fit per Secretarium Generalem Relatio, in qua describuntur labores circa argumentum vel argumenta examinata peracti et conclusiones a Patribus deductae exhibentur. Art. 41 De Relatione Romano Pontifici exhibenda Relationem, de qua in articulo 40, Secretarius Generalis Romano Pontifici exhibet. Acta Secretariae Status 777 ADNEXUM MODUS PROCEDENDI IN CIRCULIS MINORIBUS CAPUT I NATURA, SCOPUS ET COMPOSITIO CIRCULORUM MINORUM Art. 1 Decurrente disceptatione synodali, Praeses Delegatus in Circulis Minoribus, secundum linguas constitutis (cfr. Ordo Synodi Episcoporum, art. 35), ulteriorem discussionem promovet de quaestionibus, quas Relatio post disceptationem significat. Singuli Patres Synodales participabunt Circulum, qui ipsis tribuetur, ratione habita linguarum ab ipsis electarum. Omnes et singuli Circuli eadem pertractabunt argumenta. Art. 2 Scopus huiusmodi Circulorum Minorum est Patribus praebere opportunitatem facilius exprimendi suas cuiusque opiniones, easque inter se conferendi, ut sic denique patefiat et compendiose declaretur de quibus sententiis consentiant, de quibus vero dissentiant. Haec quidem collatio per se ad opiniones quam maxime concordantes, etiam ad generalem consensum, ut optatur, perducat oportet, semper tamen ratio habenda erit cuiusvis opinionis sive oppositae sive diversae. Art. 3 Patres Synodales distribuentur in Circulos secundum linguas quae sequuntur: latina, anglica, gallica, germanica, hispanica simul cum lusitana, italica. Si multi Patres elegerint eandem linguam, ipsi in duos vel plures Circulos eiusdem linguae dividentur. Quae divisio fiet plerumque iuxta ordinem alphabeticum, qualis apparet in indice Patrum nominali. 778 Acta Apostolicae Sedis — Commentarium Officiale CAPUT II DE ORDINATIONE CIRCULORUM ET DE DISCEPTATIONE CIRCA ARGUMENTUM Art. 4 § 1. Moderator uniuscuiusque Circuli erit unus ex Patribus Synodalibus qui ei intersunt. Eligitur vero in initio primae sessionis a Sodalibus eiusdem Circuli, per secreta suffragia (cfr. C.I.C., can. 172; C.C.E.O., can. 954) in schedulis expressa, per maioritatem relativam. § § § § 2. 2. 2. 2. Moderatoris uniuscuiusque Circuli est: – enuntiare palam argumenta proposita; – disceptationem moderari; – providere ne ipsa disceptatio a materia seu quaestionibus propositis declinet; § 2. – promovere actuosam participationem Sodalium; § 2. – decernere quodnam argumentum ante alia tractari debeat et definire tempora ad loquendum concessa, ubi illa aut illa necessitas contingat propter ipsius temporis angustias. Art. 5 § 1. Relator uniuscuiusque Circuli erit unus alterve ex Patribus Synodalibus, qui ei intersunt. Eligitur a Sodalibus eiusdem Circuli, per secreta suffragia (cfr. C.I.C., can. 172; C.C.E.O., can. 954) in schedulis expressa, per maioritatem relativam. Electio fit in initio primae sessionis. § 2. Relatoris uniuscuiusque Circuli est: § 2. – in fine singularum sessionum summatim repetere sententias prolatas, sive consentientes sive dissentientes; § 2. – disceptatione argumenti absoluta, parare Relationem, a Membris Circuli probandam, quae omnes praedictas sententias, sive consentientes sive dissentientes, contineat; § 2. – coram coetu Relationem proferre. Art. 6 § 1. Uniuscuiusque Circuli Secretarius erit Assistens quidam Secretariae Generali Synodi Episcoporum adscriptus. Acta Secretariae Status 779 § 2. Secretarii uniuscuiusque Circuli est: § 2. – praesto adesse Moderatori; § 2. – praesto esse Relatori pro apparanda Relatione et omnibus Circuli Sodalibus pro qualibet ministratione technica, quam forte petant; § 2. – satisfacere iis quae a Sodalibus Circuli quaeruntur, si forte illa quaeri contingat; § 2. – processum verbalem consessuum Circuli exarare, Secretariae Generali transmittendum. CAPUT III DE CIRCULORUM RELATIONUM EXPOSITIONE IN PLENARIA SESSIONE Art. 7 Tempore a Praeside Delegato statuendo, Relatores, nomine Membrorum uniuscuiusque Circuli, Relationem, de qua in art. 5, § 2, in congregatione generali exponent. Art. 8 Relationibus Circulorum Minorum in congregatione generali expletis, ad normam art. 36 Ordinis Synodi Episcoporum, facultas respondendi tribui potest Patribus Synodalibus, qui necessarium duxerint aliquid complere, emendare aut enucleare circa ea quae in Relationibus contineantur. Art. 9 Expositione absoluta in congregatione generali, potest Praeses Delegatus, ad normam art. 34 Ordinis Synodi Episcoporum, de ipsis Circulorum Minorum propositionibus in Aula discussionem instruere. Acta Apostolicae Sedis — Commentarium Officiale 780 ACTA CONGREGATIONUM CONGREGATIO PRO EPISCOPIS PROVISIO ECCLESIARUM Latis decretis a Congregatione pro Episcopis, Sanctissimus Dominus Benedictus Pp. XVI, per Apostolicas sub plumbo Litteras, iis quae sequuntur Ecclesiis sacros praefecit praesules: die 2 Septembris 2006. — Cathedrali Ecclesiae Sancti Severi, Exc.mum P.D. Lucium Renna, O. Carm., hactenus Episcopum Marsorum. die 9 Septembris. — Episcopum Coadiutorem Bredanum R.D. Ioannem Hermannum Iosephum van den Hende, e clero Groningensi-Leovardiensi, hactenus eiusdem dioecesis Vicarium generalem. die 21 Septembris. — Cathedrali Ecclesiae Aveirensi Exc.mum P.D. Antonium Franciscum dos Santos, hactenus Episcopum titularem Magnetensem et Auxiliarem archidioecesis Bracarensis. die 29 Septembris. — Cathedrali Ecclesiae Algarensi-Bosanensi, Exc.mum P.D. Iacobum Lanzetti, hactenus Episcopum Auxiliarem archidioecesis Taurinensis et titularem Marianensem in insula Corsica. — Cathedrali Ecclesiae Octeriensi, R.D. Sergium Pintor, e clero archidioecesis Arborensis, hactenus Officii Conferentiae Episcoporum Italiae pro Pastorali Valetudinis Cura Praesidem. die 3 Octobris. — Cathedrali Ecclesiae Civitatis Mariae, Exc.mum P.D. Angelum Iosephum Rovai, hactenus Episcopum titularem Abaradirensem et Auxiliarem Cordubensem in Argentina. — Cathedrali Ecclesiae Portus Iguassuensis, R.D. Marcellum Martorell, e clero archidioecesis Cordubensis in Argentina, ibidemque parochum Cordis Iesu Eucaristici. die 5 Octobris. — Cathedrali Ecclesiae Matehualensi R.D. Lucam Martı́nez Lara, e clero archidioecesis Sancti Ludovici Potosiensis, hactenus Vicarium episcopalem et paroeciae vulgo Santa Catalina nuncupatae parochum. Diarium Romanae Curiae 781 DIARIUM ROMANAE CURIAE Il Santo Padre Benedetto XVI ha ricevuto in Udienza Ufficiale per la presentazione delle Lettere Credenziali: Venerdı̀, 8 settembre, S.E. il Signor Pedro Pablo Cabrera Gaete, Ambasciatore del Cile; Sabato, 16 settembre, S.E. il Signor Ivan Rebernik, Ambasciatore di Slovenia; Lunedı̀, 18 settembre, S.E. il Signor Martin Bolldorf, Ambasciatore di Austria; Giovedı̀, 28 settembre, S.E. il Signor Hans-Henning Horstmann, Ambasciatore della Repubblica Federale di Germania; Venerdı̀, 29 settembre, S.E. il Signor Rrok Logu, Ambasciatore di Albania. Ha, altresı̀, ricevuto in Udienza: Giovedı̀, 28 settembre, il Dott. Günter Hirsch, Presidente della Corte di Cassazione della Repubblica Federale di Germania; Lunedı̀, 2 ottobre, S.E. il Signor James Alix Michel, Presidente della Repubblica delle Seychelles; Giovedı̀, 5 ottobre, S.E. il Signor Heinz Fischer, Presidente della Repubblica di Austria. NOMINATIO A conferma di quanto pubblicato il 22 giugno 2006, il Santo Padre ha nominato il 15 settembre 2006 Segretario di Stato Sua Eminenza Reverendissima il Sig. Card. Tarcisio Bertone, S.D.B., Arcivescovo emerito di Genova. Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 782 SEGRETERIA DI STATO NOMINE Con Brevi Apostolici il Santo Padre Benedetto XVI ha nominato: 6 settembre 2006 23 » » S.E.R. Mons. James Patrick Green, Arcivescovo titolare di Altino, Nunzio Apostolico in Sud Africa e in Namibia, e Delegato Apostolico in Botswana, Nunzio Apostolico in Lesotho. S.E.R. Mons. James Patrick Green, Arcivescovo tit. di Altino, Nunzio Apostolico in Sud Africa, Lesotho, Namibia e Delegato Apostolico in Botswana, Nunzio Apostolico in Swaziland. Con Biglietti della Segreteria di Stato il Santo Padre Benedetto XVI ha nominato: 1 settembre 2006 L’Em.mo Signor Cardinale Agostino Vallini, Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Membro della Congregazione per i Vescovi « ad quinquennium ». 2 » » Il Rev.do P. Felice Ruffini, M.I., Sotto-Segretario del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari « donec aliter provideatur ». 15 » » S.E.R. Mons. Giovanni Lajolo, Arcivescovo tit. di Cesariana, finora Segretario della Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato, Presidente della Pontifı̀cia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano e Presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, « ad quinquennium ». » » » L’Ecc.mo Mons. Dominique Mamberti, Arcivescovo tit. di Sagona, finora Nunzio Apostolico in Sudan e in Eritrea, Segretario per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato « ad quinquennium ». 21 » » Gli Ecc.mi Monsignori: Josef Voss, Vescovo tit. di Tisiduo, Ausiliare di Münster (Germania), e Renato Ascencio León, Vescovo di Ciudad Juárez (Messico), Membri del Pontifı̀cio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti « ad quinquennium ». » » » Gli Ecc.mi Monsignori: Marian Gołebie˛wski, Arcivescovo di Wroclaw (Polonia), e Leo Cornelio, Vescovo di Diarium Romanae Curiae 783 Khandwa (India), Membri del Pontifı̀cio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti « in aliud quinquennium ». 22 » » L’Em.mo Signor Cardinale Ivan Dias, Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, Membro del Consiglio Speciale per l’Asia della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi « ad quinquennium »; S.E.R. Mons. John Atcherley Dew, Arcivescovo di Wellington (Nuova Zelanda), Membro del Consiglio Speciale per l’Oceania della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi « ad quinquennium »; S.E.R. Mons. Fernando Antônio Figueiredo, Vescovo di Santo Amaro (Brasile), Membro del Consiglio Speciale per l’America della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi « ad quinquennium ». 25 » » L’Em.mo Cardinal Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, Membro della Congregazione per le Chiese Orientali, della Congregazione per i Vescovi e della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli « ad quinquennium ». Si rende noto che il 22 settembre l’Ill.mo Prof. Paolo Papanti-Pelletier è stato confermato Giudice Aggiunto del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano « ad annum ». NECROLOGIO 6 agosto 2006 22 » » Mons. Simeon Pereira, Arcivescovo em. di Karachi (Pakistan). 23 » » Mons. Justin Samba, Vescovo di Musoma (Tanzania). » » » Mons. Francisco Peralta y Ballabriga, Vescovo em. di Vitoria (Spagna). 27 » » Mons. Alfred Maria Oburu Asue, C.M.F., Vescovo di Ebebiyn (Guinea Equatoriale). » » » Mons. Juan Ignacio Larrea Holguı́n, Arcivescovo em. di Guayaquil (El Ecuador). » Mons. Oscar Garcı́a Urı́zar, Vescovo em. di Los Altos, Quetzaltenango-Totonicapan (Guatemala). 5 settembre Mons. Pietro Giachetti, Vescovo em. di Pinerolo (Italia). Acta Apostolicae Sedis – Commentarium Officiale 784 7 settembre 2006 Mons. Alberto Setele, Vescovo di Inhambane (Mozambico). » » » Mons. Petar Perkolić, Arcivescovo em. di Bar (Montenegro). 11 » » Mons. Louis Cornet, Vescovo em. di Meaux (Francia). » » » Mons. Antonio Forte, Vescovo em. di Avellino (Italia). 14 » » Mons. Michel Yatim, Arcivescovo em. di Lattaquié dei GrecoMelkiti (Siria). » » » Mons. José Mauro Pereira Bastos, Vescovo di Guaxupé (Brasile). 16 » » Mons. Mário Teixeira Gurgel, S.D.S., Vescovo em. di Itabira – Coronel Fabriciano (Brasile). 17 » » Mons. Gianfranco Masserdotti, M.C.C.I., Vescovo di Balsas (Brasile). 23 » » Mons. Vital Komenan Yao, Arcivescovo di Bouaké (Costa D’Avorio). 24 » » Mons. Joseph M. Nguyên Quang Tuyên, Vescovo di Bac Ninh (Vietnam). 26 » » Mons. Benedict Charles Franzetta, Vescovo tit. di Oderzo, Ausiliare em. di Youngstown (Stati Uniti d’America). 29 » » Sua Em.za il Signor Cardinale Louis-Albert Vachon, del Tit. di S. Paolo della Croce a « Corviale » (Canada).